* Nel dialogo le differenze con-comunicanti

Nel dialogo fra le religioni si è soliti privilegiare gli aspetti co­muni, nella convinzione di facilitare l’incontro. Invece, ciò predispo­ne a concludere che tutte le religioni dicono le stesse cose. Parados­salmente, il dialogo basato sulle somiglianze risveglia la concorrenza e, quindi, accende la rivalità. Il dialogo fecondo è quello che valoriz­za le differenze. Ciò è particolarmente vero nel dialogo cristiano­-buddhista, nel quale si percepisce, al di là delle dissomiglianze, qual­cosa che unisce. E anzitutto l’identica serietà con cui ambedue perse­guono il senso ultimo della realtà. Ma non solo! Come dice il pro­verbio: gli estremi si toccano; e sullo sfondo si può intravedere il punto d’incontro della religiosit;i cristiana e di quella buddhista. «Tutto è vuoto, tutto è inconsistente», dice lo zen e, così dicendo, salva l’uomo dagli attaccamenti che appesantiscono la vita. «Tutto è pieno, tutto ha un senso, tutto è redento da Cristo», annuncia il Vangelo e, così annunciando, salva l’uomo dalla tentazione del nichi­lismo. Il vuoto e il pieno sono due estremi; eppure, l’uomo percepi­sce d’aver a che fare con ambedue. Percepisce che per dire il pieno, sullo sfondo ci deve essere l’esperienza del vuoto e viceversa. Orbene i grandi santi cristiani, per dire la pienezza della loro esperienza di Dio, spesso hanno fatto ricorso alle espressioni familiari al cammino buddhista. Ci sorprende come Tommaso d’Aquino (1225-1274), i mistici del Medioevo, Giovanni della Croce (1542-1591), Angelo Si­lesio (1624-1677), abbiano testimoniato di sperimentare Dio come il nulla di tutto quanto l’uomo pensa. Dall’altra parte, i mistici dello zen hanno indicato il vuoto buddhista con la bella immagine della luna piena, il maestro Eihei Dogen (1200-1253), fondatore del ramo zen soto giapponese, scrive:

Il vento della dimora di Buddha (il vuoto) fa essere presente il presente della grande terra che si fa oro, fa giungere a maturazione la dolce crema della corrente dell’ esistenza [3].

Quindi le vie religiose, pur nelle loro rilevanti differenze, sono animate dalla stessa buona intenzione di guidare l’uomo a conoscere il senso ultimo del suo esistere. Se ne deduce che le parole o le imma­gini sono sempre uno strumento preso a prestito che, pur dicendo, non può esaurire il contenuto che intende dire. La parola e l’immagine accennano; mai definiscono. Il dialogante religioso deve tener presente la sproporzione fra il segno che significa e ciò che è signifi­cato, per portare avanti il dialogo nella lievità dello Spirito. Altri­menti, inciampa nella differenza di linguaggio e cade. Lo Spirito lo previene dal cadere nell’assolutizzare le differenze dei linguaggi, e gli fa intravedere la direzione comune verso cui, in modalità opposte, tutti camminiamo. Il dialogo non si propone affatto di ridurre i cari­smi per fare delle religioni un «minestrone universale», incolore e insapore. Piuttosto libera dalle sovrastrutture accumulate cedendo alla tentazione di ergersi a sistema globalizzante e permette ai carismi religiosi di brillare della loro nuda originalità. Nulla è contrario al vero dialogo come lo «scimmiottare» o il «fotocopiare». Il dialogo sfida le religioni a ritrovare il proprio carisma originario, spoglian­dolo da ciò di cui le culture l’hanno rivestito e camuffato. Basterebbe questo risultato per plaudire all’arduo cammino del dialogo!

[3] E. DOGEN, Bussho. La natura autentica, EDB, Bologna 2000, p. 37.

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