* Il dialogo cristiano-buddhista tra differenti carismi

Il pudore nell’uso delle parole deve essere la regola fondamentale soprattutto nel dialogo cristiano-buddhista che oggi fa visita anche alle nostre comunità parrocchiali e ai nostri gruppi giovanili. Il pu­dore della parola esige anzitutto l’ascolto attento e, quindi, la rumi­nazione silenziosa di quanto si è ascoltato. A questo punto invito te, lettore, all’ascolto di come questo tuo fratello, il sottoscritto, ha com­preso i carismi originari della via del vangelo e dello zen, consapevole che il suo dire è solo un cenno. I carismi scaturiscono dalle vene profonde dell’esperienza umana, come l’acqua dalle sorgenti. Il cari­sma cristiano scaturisce dalla religiosità della meta; il carisma budd­hista dalla religiosità dell’ origine. Il cristiano raggiunge la salvezza offrendo tutto al regno di Dio che viene; il buddhista raggiunge la liberazione dalle catene restituendo tutto all’ origine. Il cristiano si salva consacrando la sua esistenza nel Cristo, celebrando l’eucaristia; il buddhista si siede in meditazione, abbandona tutti i pensieri e si libra nel distacco totale, dove non rimane alcuna cosa che urti o pro­curi smarrimento e dolore. La meta cristiana è la pienezza del regno di Dio; l’origine buddhista è il vuoto incontaminato del nirvana.

Nella ventina d’anni vissuti in Giappone fra la gente umile della campagna e del mare, ho osservato attentamente come i giapponesi scintoisti e buddhisti si comportavano di fronte alle domande che la vita inesorabilmente rivolge a ogni vivente, per esempio circa il desti­no di esistere nel limite del tempo e dello spazio, mentre il cuore aspira a visioni illimitate. Forse osservavo così, perché dentro di me avverti­vo in tal modo il dilemma fra il mio limite e la mia aspirazione all’il­limitatezza. Constatavo che il rapporto del giapponese, buddhista o scintoista o cristiano, verso la realtà è sempre accompagnato da inchi­ni, quasi a chiedere scusa a qualcuno o a qualcosa. Ne ho dedotto che l’orientale sente l’esistenza come un disturbo verso la calma eterna dell’essere. Non per nulla la prima delle quattro verità del buddhismo afferma che nascere è dolore, crescere è dolore, morire è dolore. lo cristiano occidentale provo orrore verso il vuoto, horror vacui, e re­puto che il nulla eterno, da cui Dio trae gli esseri all’esistenza, sia sol­tanto supposto dalla mia mente, ma di fatto inesistente. L’orientale, invece, nei suoi comportamenti parte dall’esperienza che il vero mon­do è la calma primordiale, non disturbata dal vagito di alcuna nascita. La pace è nella profondità del mare dell’essere, non nelle onde che si stagliano nell’esistenza. Da quella calma rimane galvanizzato tutta la s~a vita. La morte viene celebrata quale scioglimento e rientro, come l’ oÌl~a che, dopo essersi elevata all’ esistenza, rincasa nel ventre del ma­re. Nirvana significa, appunto, spegnimento o scioglimento.

A me occidentale rimbalza chiara la differenza cristiana: io credo che tutto è creato nel Verbo e che proprio nella sua creaturalità ogni essere esistente è se stesso. lo, cristiano occidentale, sono incline a credere che la mia anima sia immortale, come pure che l’eskaton della creazione sia il regno di Dio. Lungo i secoli la chiesa occidentale non ha avuto dubbi nel sistemare i messaggi del vangelo negli schemi della filosofia greca, platonica e aristotelica, al punto che molto difficilmen­te il cristiano occidentale riesce a dire la sua fede senza far ricorso al vocabolario filosofico greco. Il dialogo con il buddhismo, ma anche il semplice rapporto con i cristiani dell’ estremo Oriente, sulle prime ha disorientato me missionario, come se le parole c4.e ci scambiavamo seguissero due criteri d’interpretazione differenti. E stato importante rimanere in quel crogiuolo e vivere il rapporto, e ho potuto constatare come il linguaggio della mia cultura, quindi per me collaudato, a cui ero solito affidare la testimonianza della fede, parlando con gli orien­tali risultasse inadeguato a captare tutta la profondità delle cose che andavo dicendo. Solo in seguito sono giunto a comprendere che il mio collaudato linguaggio non diceva tutto, perché la mia compren­sione della verità non era giunta a comprendere tutto. Per esempio, sono giunto a comprendere che il regno di Dio, che sempre avevo pensato come una realtà che si realizza nel futuro anche grazie ai miei sforzi, di fatto è da sempre in Dio, senza origine né termine. L’eterni­tà non corrisponde al nostro tempo pensato come una successione che non ha fine.

L’eternità non è successione; è invece presenza. Non sarà mai che un santo con la sua santità aggiunga una granellino di santità alla santità eterna di Dio. Quando io, missionario cattolico in Giappone, guidato per mano dai giapponesi sul cui capo avevo versato l’acqua battesimale, ho potuto cogliere il senso religioso che sottostà alla sequenza di inchini che buddhisti, scintoisti, cristiani ri­petono in ogni funzione della vita, allora ho sentito il buddhismo mio vicino di casa, benché non nomini mai Dio, né Cristo.

Da allora ho cominciato a praticare lo zazen. Questo è la pratica fondamentale del cammino zen, che si compie sedendosi su un cusci­no, incrociando le gambe, con la spina dorsale eretta, gli occhi aperti, il respiro normale, le mani e le braccia conserte in forma di cerchio. E la posizione dell’albero ~on le radici abbarbicate alla terra, il fusto eretto, le fronde distese. E la pratica del posizionarsi nel silenzio pri­mordiale, universale, cosmic~, prima che la consapevolezza umana lo rompa per dargli dei nomi. E il far ritorno nel silenzio che è prima della divisione della realtà in buona o cattiva, perché il dividere è già silenzio rotto dalle categorie individuali. E l’immergersi nel silenzio che è prima di professare che Gesù di Nazaret è il Cristo! Sì, perché nessuno lo riconosce se non ascolta la voce originale del Padre. C’è il silenzio che è prima di udire il vangelo! Sì, perché nessuno ode il van­gelo, anche se ode la voce fisica di Gesù, se non ha l’orecchio che intende il vangelo, prima di sapere che è il vangelo. Nello zazen spe­rimento che l’attimo fuggente che sto vivendo si battezza nell’eternità.

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