* La danza tra natura e persona nel dialogo cristiano-buddhista
La penetrazione del buddhismo nell’anima dei cristiani occidentali segna l’inizio di un nuovo sentire spirituale; di conseguenza dissoda dentro di loro un nuovo terreno in cui il seme del vangelo porterà a maturazione una reale nuova evangelizzazione. Infatti, l’avvento del buddhismo aiuta i cristiani a liberarsi dal risucchio nel vecchio teismo o monoteismo, non evangelizzato dalla rivelazione della divina relazione trinitaria. T aIe risucchio tenta i cristiani di ogni epoca a ridurre il Cristo a ribanditore della supremazia del Dio monolitico e il cristianesimo a religiosità anticotestamentaria. L’attrazione al buddhismo è indice della sete d’immanenza divina nell’umile e impermanente realtà dell’uomo. In una religiosità che, pur dicendosi cristiana, adori Dio solo come il «sommo trascendente» e non lo baci con affetto come l’amico «immanente», in tale religiosità persiste il preconcetto della dualità fra Creatore e creazione, fra Dio e uomo, fra eternità e tempo che passa, fra perfezione e imperfezione, fra storia ed escatologia, fra anima e corpo. Un cristianesimo che si nutre di questa dualità, da essa non si libererà mai: infatti rimarrà l’eterno godere dei buoni in paradiso e l’eterno soffrire dei cattivi all’inferno. L’urlo di Cristo sulla croce: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34) cadrà a vuoto. Eternamente rimarrà la dualità del bene e del male, della gioia e del dolore. L’esistente non sari0illUilltegralmente liberato, ma resterà sotto la legge. La grazia sarà intesa come sussidio alla legge e non la legge come pedagogo alla grazia. La dualità resterà stadio ultimo dell’ essere.
Nella visione duale la persona può spadroneggiare. Questa, infatti, è intesa come la depositaria unica dei suoi diritti e doveri, avente confini chiari e distinti dai diritti e doveri altrui. La persona, grazie ai suoi meriti, o è buona e sempre beata in paradiso, o è cattiva e sempre dannata all’inferno. Orbene, l’umanità oggi è giunta a sperimentare che ciò che esiste non è separato né separabile in due sezioni, ma tutto è interdipendente e «relativo». Certo, esiste la persona; ma questa è come la cima che si eleva dalla catena montuosa, madre di tutte le cime. L’uomo odierno è maturato alla convinzione che la realtà non è dicibile con il solo concetto di persona; ma c’è un’ altp presenza fondante, più profonda dello stesso aspetto personale. E, questa, la natura: il riferimento santo della spiritualità orientale.
La natura evoca e indica tanto la «creaturalità», parola del vocabolario cristiano, quanto l’ «impermanenza», vocabolo fondamentale del linguaggio buddhista. «Creaturalità» è un vocabolo eretico per i buddhisti che non nominano mai Dio, così pure «impermanenza» è un termine ostico agli orecchi dei cristiani, che vi subodorano una visione panteistica della realtà. Il dialogo svolge l’opera buona di sventare le paure dovute ai preconcetti. Anzi, l’accostamento fra creaturalità e impermanenza rende più evidente il loro significato. Una parola arricchisce il senso dell’altra. Creaturalità, in modo immediato, dice al cristiano che ciò che esist~ sussiste grazie a una forza, a un pensiero, a un amore divino che lo trae all’ esistenza dal nulla. Impermanenza ai buddhisti trasmette la lievità delle foglie che cadono: tutto è vuoto, tutto si trasforma, tutto è gioco dell’interdipendenza cosmica. Creaturale è la qualità dell’ esistenza compresa partendo dalla persona creante, impermanente è la stessa compresa partendo dalla natura quale seno che nutre ogni esistente. Quando ero missionario in Giappone, riversavo il senso della creaturalità divina sull’impermanenza buddhista. Qui in Italia, rivolgendomi a cristiani occidentali, riverso il senso dell’impermanenza buddhista sulla creaturalità cristiana. Ne scaturisce la «mistica della spontaneità».
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