Il Buddha, chiamato così dai suoi discepoli come colui che ha conseguito la pienezza della buddhi, della conoscenza, del risveglio, è il principe che ora ha già quasi una quarantina d’anni, forse 38 o 39, quando comincia ad essere seguito da un centinaio di discepoli. Ma egli non vuol fondare una religione, non vuol fondare fin dall’inizio neppure un ordine monastico, non ha lasciato la casa paterna per salvare il mondo, non ha voluto discepoli che lo seguissero perché ha qualcosa da dire loro, egli vuol vivere e ha scoperto una sola cosa: ha scoperto che al mondo c’è dolore; ha scoperto l’origine di questa sofferenza, ha scoperto che questa sofferenza può cessare e ha trovato la strada. E la strada complessa di queste otto dimensioni che portano alla cessazione del dolore, della sofferenza, all’appagamento di ciò che molte volte è stato tradotto come desiderio, ma che la parola tanto in pâli quanto in sanscrito vuol dire semplicemente sete; la sete di esistere, la sete di non esistere, la sete di voler essere perfetto, la sete di voler arrivare da qualche parte, l’inquietudine di non voler stare nel proprio posto, il desiderio di volere qualsiasi cosa. Ora, trascendere la volontà, questo non comprese Nietzsche, non è voler non avere volontà. Durante quasi una quarantina d’anni quest’uomo continua a vivere nelle pianure gangetiche del nord dell’India e pian piano là gente gli si riunì e gli si raggruppò attorno. Nella tradizione di quei tempi chi seguiva un uomo spirituale o un maestro si chiamava bhikkhu, monaco, sannyasi, sadhu, rinunciante.

Gôtama parla mentre cammina e i suoi discepoli si impregnano di quello che egli va dicendo:

«Così come il vento soffia davanti e dietro e fa muovere le foglie del cotone, così la vera e inesauribile gioia mi sta muovendo, e in questa maniera compio tutte le cose».

Che vuol dire essere uomo? Essere uomo vuol dire, secondo quel che ci dirà uno dei suoi discepoli, partecipare al festival gioioso di tutta l’esistenza.

«Il profumo di un fiore non viaggia contro la direzione del vento, ma la fragranza di un uomo buono va anche contro la direzione del vento; un uomo buono penetra le quattro direzioni».

Egli è molto convinto di quello che in seguito la tradizione commenterà: «ll santo non lascia tracce, è come il volo di un uccello, non lascia orme. Perciò è tanto difficile seguirlo».

Quest’uomo entusiasma. Discepoli lo seguono da tutte le parti. Anche le donne lo vogliono seguire, ed egli, che aveva fatto quella eccezione con Sujata, dice di no. Ma Ananda, il monaco più stimato da lui, dice al maestro che le accetti e allora egli le accetta. Ma non ha alcuna pretesa né di formare una religione, né di formare una setta, né di riformare il brahmanesimo, né di creare niente. Vuol vivere la propria vita, non pretende niente, non vuole dare neppure un nome alla sua comunità che sempre più si va formando. Quando muore, ottantenne, i discepoli s’accorgono che non hanno un luogo, che non sanno niente, che niente è regolato. Che cosa è accaduto? Allora, tre mesi dopo la sua morte, 500 anziani convocano il primo concilio del mondo buddista per vedere che cosa fosse capitato. E restano sorpresi nell’accorgersi che sì, erano capitate molte cose, che c’era stata una critica feroce alla spiritualità induista e brahmanica, che si erano costituiti gruppi che vivevano la vita del sangha o della comunità, che avevano preso spontaneamente come maestro uno che diceva soltanto di aver visto la realtà delle cose e la differenza che c’è tra loro.

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