nudità perfetta:

natura autentica dello Zen e carità del Vangelo

Le considerazioni di padre Giovanni sulla nudità perfetta penetrano nella parte più intima della mia anima. Ho raggiunto una certa età e proprio dallo scorrere dei giorni odo il sottile invito a spogliarmi delle tante cose aggiunte che nell’età giovanile e adulta sono andato accumulando, quasi baluardo per la mia sicurezza. E comincio a sentire che la nudità è sicurezza più sicura, è libertà più libera, è bellezza più bella. Sì, perché, spogliandomi, faccio ritorno alla semplicità dell’idea originaria in cui Dio mi ha pensato e creato, prima che io quell’idea la rendessi goffa di tante aggiunte. C’è mai un aggiungere qualcosa che manchi all’idea originaria di Dio? C’è mai un punto d’arrivo operato dall’uomo che sia più vero, alto, amabile o bello che il punto di partenza che appartiene solo a Dio? Eppure, venire all’esistenza, crescere, desiderare, raggiungere gli scopi prefissi; e quindi nuovamente decrescere, invecchiare, spogliarsi, perdere e morire ha un senso, un senso divino, originario, intrinseco all’idea originaria in cui Dio mi ha pensato e creato dal nulla. Nudità così pura che è affatto il contrario della impassibilità, dell’inattività, della disaffezione verso l’inesistenza; oppure affatto il contrario della fuga nella mediocrità o nel tranquillismo o nella insignificanza: Ma è così nuda e pura che si coinvolge nella storia a capofitto, fino al versamento del sangue, ma senza lasciare strascico o puzza. In cui, quindi, il coinvolgersi altro non è che nudità perfetta: è natura autentica dice Eihei Doghen [1]; è carità dice il Vangelo. Così come è puro il passaggio di Dio nel mondo: tutto vive in lui, mentre nessuno mai ha visto le sue orme. Si dice che un novizio dello Zen abbia chiesto al suo maestro se un monaco possa possedere delle ricchezze. “Sì, – rispose il maestro -, se queste nella sua vita alzano tanta polvere quanta ne alza l’ombra del bambù del cortile”.

Dio genera l’unigenito; così la sorgente di montagna genera lo zampillo d’acqua. La sorgente continua a pullulare, e il flusso scaturito scorre a valle divenendo ruscello, fiume, foce, oceano. L’acqua scorrendo compie l’infinità delle funzioni: disseta, lava, rinfresca, scioglie, evapora, si condensa in pioggia, irrora, penetra e ritorna nella falda ad alimentare la sorgente. Le persone, le cose, le forme, i colori: tutto è creato nella corrente che scorrere; e tutto ritorna a sciogliersi, a trasformarsi, a donarsi: è l’avventura dello zampillo d’acqua limpida scaturito dalla sorgente. Questo è l’essere creato di tutte le cose nel Verbo divino; questo è il morire di ogni cosa, e il suo far ritorno nell’idea originaria nella quale Dio le ha create. La nudità perfetta è patrimonio religioso e mistico sia del Buddismo come del Cristianesimo. Nel Buddismo, soprattutto nello Zen, ha i nomi propri di impermanenza e di ciclicità armonica. Nel Cristianesimo ha i nomi propri di perdono e carità.

Lo Zen è la via del tutto che fa ritorno alla incontaminata autenticità dell’origine. Il sedere in zazen è come il sacramento che indica visivamente quel ritorno e a esso dispone l’uomo, attirandovelo con la soave attrazione del silenzio composto e sveglio. Il grande profeta dello Zen Soto, Eihei Dooghen, vissuto in Giappone e Cina nella prima metà del 1300, testimonia così.

«Proprio nel momento in cui si fa zazen, unendo le mani, incrociando le gambe, in silenzio, senza emettere suono, con la lingua aderente al palato, mentre la mente e il cuore lasciano che il movimento della coscienza si manifesti così com’è, soprattutto senza lasciarmene trascinare, in questo zazen si manifesta senza veli il vero modo di essere di tutto l’universo…, manifesta il vero aspetto originale di ciò che è se stesso. Così la totalità della vera forma aumenta sempre più il suo splendore, questa lucentezza più e più genera l’attività della vera forma originale… Per questo ogni cosa canta la verità senza aggiungere nulla» [2].

L’orientale buddista o scintoista impara la via della nudità perfetta osservando la ciclicità e l’impermanenza dei fenomeni naturali. Non c’è nulla che permane statico in un qualsiasi aspetto o momento del suo esistere. L’esistere stesso è dato dal perpetuo scorrere. E la nudità è il comportamento più adatto per scorrere con agilità e bellezza nelle onde del divenire. Mentre, invece, la brama e l’attaccamento inducono l’uomo e le cose nella sofferenza. Perfino il suicidio è ritenuto un atto religioso, attraverso cui tagliare la catena della brama e della sofferenza; per questo è stato perpetrato da tanti come un rito. Anche la morte di Gesù sulla croce è percepita come un suicidio dell’amore: infatti è il rinnegamento del proprio io e della propria vita, riversandola nella funzione santa del perdono e della carità. Atteggiamenti di fondo comunicanti fra loro: eppure l’insegnamento evangelico della perfetta nudità rimane, anche per il buddista, una lieta notizia.

Sì, c’è il motivo urgente di annunciare il Vangelo all’orientale buddista che persegue la nudità perfetta con tanta attenzione e consapevolezza. Perché il Vangelo penetra in un meandro dove l’uomo rimane succube e pesante, anche quando si rispecchia nella limpidezza del ruscello per imparare a essere nudo come l’acqua che scorre. È il meandro del peccato; in particolare di quella vischiosità del peccato di cui l’uomo non riesce a liberarsi e che i teologi hanno denominato peccato originale: quindi una condizione che appartiene all’uomo fin dall’origine. È una vischiosità in cui l’uomo si impegola ancor più proprio nello sforzo di liberarsene, come a volte accade toccando la colla per prendere i topi. Il Vangelo è il santo annuncio che denuda l’uomo anche dalla pia smania di non voler essere peccatore: quindi di non aver bisogno di chinare il capo e di chiedere perdono. Endoo Shuusaku, uno dei massimi scrittori giapponesi del secolo scorso, di tradizione buddista e battezzato cristiano, afferma che la novità del Vangelo per il buddista è tutta contenuta nelle parole dette da Gesù a Simone il fariseo, quando questi l’aveva invitato a pranzo a casa sua e la donna peccatrice era entrata di nascosto a lavare i piedi di Gesù con le sue lacrime, asciugarli con i suoi capelli, e versarvi sopra il profumo coprendoli di baci. «“Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco”. Poi disse a lei: “Ti sono perdonati i tuoi peccati”. Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: “Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?”. Ma egli disse alla donna: “La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!”» (Lc 7,47-50). Chi ha poco bisogno di perdono, ama poco! In altre parole, chi è poco peccatore non può diventare capace di grande amore. E l’amore è la qualità più originaria dell’uomo! Davvero, la porta che dischiude all’uomo la via del ritorno all’idea originaria in cui Dio l’ha creato, è proprio lo stato di peccatore, perché in esso l’uomo incontra la grazia, si converte, sperimenta la risurrezione, entra nella gratuità, dilata il suo spirito alle stessa magnanimità di Dio perdonando a sua volta chi pecca contro di lui. Diventa capace di amare e perdonare, senza alzare la polvere del fare qualcosa di speciale, o dell’aspettarsi una qualche ricompensa. Ama e perdona, rimanendo perfettamente nudo! Allora l’uomo creato da Dio diviene l’uomo generato da Dio, suo figlio, dallo stesso cuore, dalla stessa qualità.

«Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7), dice il Vangelo. Eppure l’uomo, sia d’occidente che d’oriente, brama istintivamente di appartenere ai novantanove giusti. Perciò, nel suo sforzo di autocomprendersi, evita di partire dal riconoscersi essere peccatore; quindi non ama incamminarsi nel viaggio della vita partendo dalla conversione; quindi non trova riposo nel vuoto; ma piuttosto fissa la sua dimora ne ritenersi qualcosa. Quando incontra Dio, ritiene che è grazie al suo qualcosa che l’ha incontrato. Quindi c’è lo spazio per il vanto. L’apostolo Paolo scrive: «Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene (Ef 2,8-9). La fede è la disposizione dello spirito nell’uomo che riconosce la sua nudità. La fede è come il volo dell’uccello che si libra nel vuoto proprio perché non trattiene nulla di aggiunto che appesantisce le sue ali. Il buddista, quando siede in zazen, manifesta questa perfetta nudità. Il Vangelo rivela una nudità più nuda, che il volo dell’uccello già allude. Infatti la stessa resistenza dell’aria che si oppone allo slancio dell’uccello diventa la condizione che permette all’uccello di volare. Così il peccatore che si converte, trova proprio nel suo essere peccatore e quindi nel suo aver continuamente bisogno di perdono, l’ambiente in cui egli sperimenta la carità di Dio e a essa si affida.

Non la carità di chi pretende di accaparrassi, nella sua funzione, la parte del leone, ossia il ruolo di fare l’elemosina ai poveretti; ma la carità che è indifferente verso l’essere la parte di chi aiuta o quella di chi è aiutato. La carità nuda anche dalla pretesa di fungere da benefattore; la carità come Dio la intende, in cui c’è il dare come il ricevere, sempre comunicanti e inscindibili. Anzi, in cui la parte del più piccolo è riconosciuta come quella stessa del Cristo. «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt25,40).

Per noi cristiani, entrare nella perfetta nudità e nella sua pace, passa attraverso la purificazione della nostra carità: da carità operata verso i miseri, alla carità che è prima e oltre le nostre opere di carità. La carità che Paolo chiama non esistere per se stesso, ma nel Signore. E nel Signore divengono carità i nostri, meriti e i nostri demeriti. Per noi cristiani, entrare nella perfetta nudità passa attraverso la pratica del silenzio puramente vuoto dello zazen. Sì! Mentre io, missionario cristiano, annuncio ai monaci dello Zen che il silenzio più silenzioso non è l’opera della nostra consapevolezza che, anche quando tace, rumoreggia; ma il silenzio di chi offre sia il bene sia il male che gli appartengono alla funzione cristica della carità che redime l’universo. È veramente nuda la nudità di chi perdona gioiosamente a se stesso di essere peccatore, al punto che ciò non lo disturba nel suo vivere anche lo stato di peccatore nella carità. In quella carità i pagani di Tiro e Sidone, e perfino i peccatori di Sodoma, sono prima delle pie folle di Cafarnao che osannavano alla venuta di Gesù. Forse, in quell’osannare, qualcosa si invischiava sul loro spirito. Mentre i peccatori delle città pagane, pur peccando, alzavano meno polvere.

Padre Luciano Mazzocchi sx

[1] Eihei Dooghen, La natura autentica (Busshoo), EDB 1999

[2] Eihei Dooghen, Il cammino religioso (Bendoowa), Marietti 1990, p.30-31