Sab 20 Mag 2006 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

* Perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena

«Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rima­nete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e ri­mango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi co­mando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri».

* Il pensiero si fa carne: la gioia

«Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga». Poche ore prima della sua morte, Gesù, guardando in faccia ai discepoli che stava per lasciare, è preso d’assalto da tanti sentimenti. Per ciascuno aveva una parola da dire, quella di cui ognuno aveva bisogno. Prende forma così il discorso dell’ultima cena: tanti messaggi personalizzati che si susseguono: un discorso che assomiglia a una spiga turgida di tanti chicchi. Vi emana l’atmo­sfera del raccolto.

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Gesù proietta sui suoi discepoli la sua stessa maturità e li vede come già maturati nel cammino della fede. Li vede pieni di gioia, mentre affrontano le innumerevoli difficoltà. Li vede capaci di dare la vita l’uno per l’altro, in quella profonda amicizia che, secondo il vo­lere del Padre, è il legame originario fra gli esseri umani. Li vede così, anche se quella sera stessa, subito dopo aver mangiato il pane su cui egli disse: «È il mio corpo che è dato per voi», avevano improvvisato una delle solite liti su a chi spettasse il primo posto. È la sera in cui Pietro spergiurò ripetutamente d’essere migliore degli altri e in cui Giuda Iscariota aveva intascato il prezzo del tradimento. Mai, come quella sera, la debolezza e la contraddizione dei suoi apostoli sarebbe apparsa nella sua nudità. E mai, come in quella sera, la carità di Cristo si sarebbe manifestata nella sua onnipotenza originale.Gesù è così convinto che la fisionomia ultima di ogni creatura è la carità, che già la intravede negli occhi dei suoi discepoli, e di ogni uomo. Ne è convinto, non tanto per i meriti delle creature che sono tutte contrassegnate dalla debolezza e dalla contraddizione, ma per­ché egli vede i discepoli e le creature nel pensiero originario in cui furono creati. E in tale pensiero originario vede anche la soprag­giunta debolezza dei discepoli, per cui continua a sceglierli anche nei momenti di infedeltà come in quelli di entusiastica sequela. «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi».

Il Cristo aveva annunciato loro il V angelo, avvolgendo li dell’i­dealità di cui era ricolmo il suo cuore. Ma quella stessa idealità aveva causato il loro sconforto, perché avevano constatato di non riuscire a volare così alto. «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati». Percepisce una profonda amicizia verso di loro, la sera stessa in cui lo avrebbero abbandonato. La ca­rità è escatologica! Ossia, oltrepassando la specie fenomenica del peccato, vede la trasformazione ultima di ogni esistenza. Cristo è co­lui che svolge la funzione di risvegliare nel discepolo la sua voca­zione di carità: gliela purifica con il perdono, gliela nutre con il pane del suo corpo, gliela rallegra col vino del suo sangue. «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga».

Nella carità è abolita anche la distanza fra chi ama e chi è amato: non c’è superiorità alcuna, ma solo relazione di amicizia. Come potrebbe Cristo chiamare amici i suoi discepoli se essi non fossero coloro che gli fanno percepire l’amicizia? «Colui che santi­fica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa ori­gine» (Eb 2,9): il Cristo e i discepoli scaturiscono dalla fonte della carità che vuole il Cristo che santifica e i discepoli che sono santifi­cati. È la legge della grazia, che mai si riduce a rapporto di calcolo o di potere, rimanendo perfettamente gratuita. Se Cristo è amico pre­zioso per me, io lo sono per Cristo! Perché non c’è fiume da una sola sponda, così non c’è amicizia a senso unico. Qui sta la gioia del Cri­sto perché egli rende noi suoi amici; qui sta la nostra gioia, perchénoi rendiamo Cristo nostro amico.

L’uomo teista, quando nomina Dio, evoca l’origine passata e la meta futura della realtà, ambedue aspetti lontani: il primo non è più e il secondo non è ancora. L’uomo cristiano invece incontra Dio e la realtà nel Cristo, il Pensiero divino fatto carne ora e qui. Il Cristo è come una goccia d’olio che scioglie la durezza, snellisce il vigore, il­lumina l’oscurità, insapora l’alimento, profuma l’atmosfera.

«lo sto in mezzo a voi come colui che serve» (Le 22,27). Il Cristo serve il banchetto dell’amicizia. E questa amicizia è presente: qui c’è la gioia!

«Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi». Nel Cristo il creatore e la creatura, la grazia che redime e il peccato che è redento, abitano da buoni amici l’unica dimora che è il presente. È l’amicizia della croce: il ramo verticale della trascendenza divina e quello orizzontale dell’immanenza umana. Amicizia che costa il sacrificio. Nel Cristo posizionato sulla croce tutto circola: i meriti dei buoni e i demeriti dei cattivi. Nessuno esiste per se stesso! Tutto è vuoto, dice lo Zen. Tutto è carità, dice il Vangelo.

Tutta l’energia dell’immenso cielo e della madre terra sono nei chicchi di ogni spiga del campo che biondeggia! I chicchi sono la carne dei cieli e della terra! L’immenso cielo, la madre terra, ogni chicco, sono fra loro buoni amici che abitano ciò che di fatto è; che fanno essere ciò che di fatto è. Mai un chicco ha abitato fuori dal cielo e dalla terra; e mai il cielo e la terra si sono fatti presenti senza il corpo reale di qualche cosa, senza i chicchi che sono ogni qui, e ogni ora. L’eucaristia è il banchetto del corpo e del sangue di Cristo; e il Cristo è l’incarnazione di Dio con l’uomo in una sola persona. In Cristo, Dio e l’uomo assieme dicono: io! Il Cristo poi è colui che serve alla tavola dell’esistenza, generando amiCizia universale. E ciò è gioia! È festa sotto la tenda dell’esistenza.

«Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga». Il frutto che rimane non è l’accumulo di meriti che prima non c’erano e ora sono stati guadagnati. Anche il momento che appare più sterile, quello spoglio, stremato, anche quel mo­mento è frutto della grazia; è, secondo un’espressione dello Zen, già il tempo viene. Darsi col cuore a quella cosa che in quel momento è l’unica volontà di Dio da compiere, questo è l’amore. Sì, perché viene compiuta fuori dagli schemi e senza riserve. È amicizia con la vita. Anche i momenti della sterilità, vissuti così, sono fecondi di un frutto che è oltre la nostra categoria mentale di frutto!

«Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati».

Così diceva la vigilia della sua morte. Così anche noi dobbiamo comprendere la gioia e l’amore, in quella profondità misteriosa che abbraccia anche i bambini che stanno mo­rendo di fame. Quindi una gioia che custodisce la gioia a cui tutti sono chiamati nella Pasqua; in cui tutto, morendo, risorge.
p.Luciano

* Il frutto che è seme

Il Vangelo secondo Giovanni è, più di tutti gli altri, il Vangelo dell’amore. Non ci può essere altro frutto che il frutto dell’amore, cui concorrono la radice, i tralci e il vignaiolo. L’amore è il frutto che contiene i semi dell’amore. Se è chiaro questo, non potremo più con­fondere i frutti dell’amore con l’amore per i frutti.

L’amore non ha secondi fini, è fine a se stesso. Trova pace in se stesso. Non è affanno di preoccupazione per raggiungere uno scopo, ma è la vera forma della pace in atto. Budda dice: «Tutti coloro che infrangono la norma di essere incuranti verso le varie cure del mondo, non trovano la vera forma della pace».

Allora si comprende la necessità dei frutti: un amore che non produce il frutto dell’amore non è vero amore. È così per ogni forma d’amore: «Amar ch’a nullo amato amar perdona», dice Dante anche dell’amore affettivo e sensuale. Ancor più vale per l’agape, l’amore che riassume e unifica il comandamento, l’obbedienza e l’esaudi­mento. Dare la vita a chi si ama, amare coloro a cui si dà la vita, amare il dare la vita: questi sono i frutti dell’amore, che nessuno può quantificare, e che producono per virtù propria amore. Allora sì che ha senso giudicare dai frutti. Perché che cosa sia l’amore lo si com­prende non dalle intenzioni, ma dai frutti: solo se c’è come frutto l’a­more è lecito parlare d’amore: se non si produce amore non era amore ciò che si era seminato. Per questo Agostino dice: «Ama e fa ciò che vuoi»: perché se davvero ami, il ciò che vuoi corrisponde ne­cessariamente all’amore.
È bene ricordare le parole di Paolo in proposito, che sono le più esaurienti:

«Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi l’amore, niente mi giova. L’amore è paziente, è benigno l’amore; non è invidioso l’amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non avrà mai fine» (Cor 13,1-8).

Nella sua Prima lettera, Giovanni fa la più radicale afferma­zione, conseguenza diretta del suo Vangelo: «Dio è amore» (1Gv 4,16). Se Dio è amore, amore è il nome di Dio. Un grande comanda­mento dice: Non nominare il nome di Dio invano. Un detto dello Zen ammonisce: Chi sa non parla, chi parla non sa. Ci vuole pudore nel nominare l’amore, perché non è una parola, ma un comporta­mento, uno stile di vita, una conversione di atteggiamento. Quel pu­dore di cui mi trovo sprovvisto, quando mi accorgo che, in questo pur breve commento, ricorre per trenta quattro volte la parola che non vorrei mai dire invano.

jiso

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