Questa testimonianza di Cesare Viviani è la prefazione del libro Delle onde e del mare di p.Luciano Mazzocchi, pubblicato dalle Ed. Paoline a Maggio 2006.
Si sa: la fede e l’intolleranza sono vicine di casa e il pericolo sempre presente è quello che si apra una porta interna tra le due dimore e che la prima scivoli nella seconda.
Si sa che anche i percorsi spirituali, quando non sono esibizioni di gloria ma esprimono le più svariate difficoltà – più si mira in alto, più è facile sbagliare -, attraggono l’ascoltatore, il lettore.
Ora questo libro è ricco e generoso – combinazione assai rara nelle cose umane: espone tante cose vere, in quanto spogliate degli abiti e dei distintivi di appartenenza, e le rende assimilabili, le offre perché siano assimilate.
Un incontro casuale – laicamente si può pensare che esista il caso – tra due missionari di differenti religioni durante un viaggio aereo dal Giappone all’Italia interrotto da una sosta forzata in terra pakistana per ragioni meteorologiche e logistiche: un sacerdote cattolico, Marco, e un monaco buddista, Heizen, cominciano così a confrontarsi sui temi più sentiti e più sacri, ma cominciano con un attacco durissimo. Uno dice: “Non mi farò mai cristiano, perché il Cristianesimo è violento fino al midollo”. E l’altro risponde: “Non mi farò mai buddista, perché il Buddismo è narcisismo di pratiche religiose”.
E da un simile scontro inizia il percorso di padre Marco e di questo libro.
Si parte dunque da questa indicazione del monco: la violenza del Cristianesimo. È un’accusa che lui basa su alcune motivazioni: la glorificazione dell’Assoluto, del Dio cristiano, comporta una svalutazione delle esistenze; il pensiero viene considerato portatore di verità e quindi bandito come spada; il pensiero, consacrato in idee perfette e trascendenti, conferma l’inferiorità degli esseri esistenti, l’opacità della natura e della materia, ed è arrivato col dogma ad autorizzarsi inquisizioni e guerre. Conclude il buddista: natura, realtà e vita non sono per il cristiano la verità, ma un sottoprodotto di essa.
Il contrattacco sarà altrettanto agguerrito: il Buddismo come abbellimento spirituale dell’io. Non c’è l’esperienza dell’altro, dice padre Marco. Questa purificazione dal dolore e dagli attaccamenti è distacco dalla vita, è negazione dell’altro, è una ricerca tutta mentale, quasi ossessiva di equilibrio. I buddisti non abbracciano l’altro ma il distacco dall’altro. È una religiosità coltivata sotto la campana di vetro, fuori dalla storia.
Mazzocchi nota giustamente che i due religiosi si sono scambiati la stessa accusa: di avere poco amore per l’esistente, perché distolti ciascuno dalla propria religione.
Poi i due missionari, prima di lasciarsi, si scambiano un’esortazione. Padre Marco dice: non portare in Occidente il gusto dell’anonimato, questo immedesimarsi e perdersi in un nirvana buddista equivocabile con un dolce non pensare. Il monaco Heizen a sua volta: tu nel percorso di avvicinamento a Dio hai una potenza, un’energia, una grazia, operi quasi una conquista dell’essere: “lasciaci scorrere, senza inciampare nella domanda del perché scorriamo”.
E prima di introdurci nella sede della missione giapponese di padre Marco, il quale è dichiaratamente terza persona posta a leggero velo dell’autobiografia, Mazzocchi tiene a precisare ancora una differenza tra le due religioni. Il sé e l’altro sono le due sponde di ogni percorso spirituale: ora nell’occidentale il sé è l’intelligenza e l’altro è la natura intesa come realtà passiva attivata dal pensiero divino e umano; nell’orientale il sé è la Natura e l’altro è il proprio io assillante di cui liberarsi.
Nel corso della civiltà la questione del rapporto con l’Alterità è stata da sempre al centro di ogni pensiero: religioso, filosofico, artistico. E, seppure nella prassi più che nella teoria, è stata frequente la confusione tra l’Altro, alterità irriducibile, e l’altro della relazione.
Sappiamo anche quanto la costruzione religiosa debba all’etica, per cui è stato facile, nelle chiese occidentali, dare più valore all’opera che all’orazione, alla missione che al misticismo, al farsi carico dell’altro che alla clausura. Anzi, limitandoci alla Chiesa cattolica, direi che è rimasta una punta di diffidenza per i mistici e i miracoli, per l’esperienza eremitica e prodigiosa, quasi fossero luoghi esposti al narcisismo, al compiacimento e al conseguente demonio, e quindi fossero energie sottratte a miglior impiego. E in questo approccio si vede affiorare l’eterna questione della formazione morale con i suoi problemi: etica, pedagogia e psicologia scivolano facilmente nel moralismo.
Si dà alla relazione e all’attività un valore prioritario e autoritario sulle altre forme di vita, che vengono pesantemente svalutate. Non si sopporta chi sceglie l’isolamento e l’inattività (forse perché dimostra un’autonomia che può fare a meno di noi). Persino alcuni precetti o prescrizioni memorabili ne conservano traccia: “Ora et labora”, “Aiutati che Dio t’aiuta”. L’arbitrio arriva al punto da voler credere che la forma di vita che Dio preferisce sia quella verificata e approvata dal prossimo, dalla comunità.
Il punto di partenza dell’itinerario spirituale di padre Marco è dunque l’ascolto di una grave accusa: “Il Cristianesimo è violento fino al midollo”. E uno dei primi episodi della sua missione in Giappone gli torna in mente a conferma di questa violenza: aveva battezzato una malata terminale, addormentata dalla morfina, che svegliandosi rifiutò il battesimo. Aveva cercato di approfittare del sonno.
Anticipo qui subito il finale di questo percorso: padre Marco riuscirà a liberarsi dell’accusa e soprattutto di quella componente di violenza che il Cristianesimo e forse tutte le altre religioni hanno in sé.
E come nelle trame di alcuni libri gialli viene rivelato subito il finale perché il vero elemento avvincente è il percorso che l’intelligenza ha fatto per scoprirlo, così in questo libro ciò che conquista il lettore è il cammino di padre Marco, i passaggi che compie, le strettoie che supera, le difficoltà che attraversa, un cammino arduo e vero (autobiografico), particolarmente vitale e profondo, se padre Marco arriva ad affrontare uno dei pericoli più occulti per l’animo umano e per la fede: le infiltrazioni e le radici della violenza e dell’intolleranza.
Comincia la missione in terra giapponese e presto padre Marco si domanda quale salvezza può portare il Cristianesimo a questo popolo dell’Estremo Oriente già così devoto dell’essenzialità della vita. Poi un vecchio aggiustatore di orologi gli rincara la dose di dubbi, dicendogli: “Il Cristianesimo venera solo dio padre e non venera dio madre, conosce solo il cielo e non conosce la terra”. Tanto che padre Marco arriva a chiedersi: la violenza che inquina il Cristianesimo avrà a che fare con questa dimenticanza della terra?
Come può rispondere un sacerdote cristiano, proprio lui che ha posto al centro della sua fede l’incarnazione e la relazione, come può rispondere a un’affermazione che lo accusa di dimenticare il cuore, il corpo, la carne? Ecco lo spessore e il valore di questo libro che manifesta il percorso sofferto di un uomo di fede che vuole rispondere alle domande vere senza difendersi.
Riemerge con tutta la sua originaria potenza la Natura. Come pensarla, come viverla, come confrontarsi con essa? Come può vivere un cristiano la terra, la valle, la femminilità, l’istinto, la sessualità? E dove vanno a stare lo spirito e il pensiero?
Nell’itinerario di padre Marco un passaggio cruciale è la scoperta della divinità della Natura e della materia. Quando Gesù dice: “Questo è il mio corpo”, non forza il pane con la transustanziazione, perché esso è già divino. Ecco qui uno dei punti più luminosi del libro.
Così il pane non è un simbolo, ma una realtà che non ammette trasformazioni o usi da parte della mente umana: è una realtà assoluta da amare per quello che è, per la verità che è, per la divinità che è. Finisce il tentativo di dominio intellettuale e morale, e si manifesta tutto lo splendore della creazione. Allora il simbolo non è ciò che rimanda ad un altro, ma è ciò che non può rimandare ad altro.
La scoperta che Dio è Natura, oltre che essere Spirito, conduce a un’intuizione naturale e memorabile: come con il pensiero l’uomo adora Dio che è Spirito, così con l’attività e l’espressione del corpo adora Dio che è natura. Dunque la fisicità umana è adorazione divina.
Così padre Marco arriverà alla scoperta dello Zazen, l’esperienza di quel silenzio primordiale che precede la nominazione; e quindi alla scoperta che le pratiche religiose devono avere la stessa naturalezza di un frutto che matura sull’albero. Ecco allora chiarito, con la perfezione della natura, il valore del non pensiero e del silenzio.
Da qui in avanti, nel libro, si diffonde ancora di più la presenza dell’ambiente: vento e mare, isole e coltivazioni, prati e animali diventano le testimonianze più convincenti della loro divinità
Poi si incontrano pagine straordinarie sull’esperienza del perdono: c’è un perdono cristiano, che è un balsamo necessario al peccato che è a sua volta inevitabilmente presente nell’ardore della vita. E c’è un perdono giapponese, buddista e scintoista, dove l’inevitabilità del peccato ha indotto un atteggiamento fatalistico e distaccato, tanto da non ribellarsi nemmeno alla sopraffazioni.
Ma il lettore attento alle formazioni spirituali incontrerà altre finissime verità quando, distinguendo il religioso occidentale tutto proteso all’escatologia da quello orientale dedito invece al transeunte, padre Marco mostrerà tutta la violenza di ogni ricerca di origine e cause prime, elementi ultimi e condizioni eterne.
Così, mentre la definizione di “trascendente” allontana Dio dalla creazione e la creazione da Dio, l’osservazione del visibile ora non è più punto di partenza per l’invisibile, ma offre essa stessa l’invisibile, così come l’immobile il mobile e viceversa. Dove c’è il transitorio, c’è anche l’eterno. Così il tempio scintoista non ha muri, ma lo spazio interno prosegue nella natura.
Finché padre Marco arriva a mettere a fuoco il punto, oggi tanto attuale, della violenza del fondamentalismo, accostando tra loro trascendenza e concretezza, impermanenza e naturalezza.
Ecco che l’animo di padre Marco si illumina nel corso della sua missione in Oriente: a da padre assoluto, perfettissimo e incondizionato, Dio gli diventa una presenza nella relazione, creatore e salvatore di tutte le esistenze. Dice Mazzocchi:
“Padre Marco credeva sinceramente che la via che si snoda tra il silenzio del nulla e la santità dell’esistenza fosse la più autentica per incontrare Dio”.
E così nascono spontanee le domande più semplici e fondamentali: come può una religione considerarsi superiore alle altre? Come può un Dio creare l’inferno per punire in eterno le sue creature? A questo punto il percorso spirituale mostra tutto l’impegno di padre Marco a uscire da quella componente mentale di superiorità con la quale si guarda l’Uno divino dei buddisti come indistinto e stagnante.
Poi si approda all’insoluto mistero del male: nel confronto occidente – oriente, il Cristianesimo e il Buddismo vanno alla ricerca delle radici del male e azzardano spiegazioni.
La definizione abbracciata da padre Marco è tra le più limpide e mature: l’essere infinito si riversa nelle forme finite dell’esistere che, poi maturando, si avviano a morire e ad essere restituite all’infinito. Questi passaggi sono dolorosi e vissuti come male.
Io, come lettore partecipe di questo mirabile cammino di padre Marco in terra straniera, ma anche come poco credente, mi permetto un passo ulteriore: dico che di fronte all’inspiegabile ogni spiegazione è una fantasia, un’invenzione, e che ogni fantasia e invenzione elaborate dall’uomo di fronte all’inspiegabile, alla tragedia dell’inspiegabile, sono degne di massimo rispetto.
L’avventura religiosa testimoniata da questo libro non si concluderà mai, e va ben oltre la fine di questa raccolta di pagine. Procedendo negli anni di vita missionaria in Giappone, padre Marco comprende meglio la specificità di ogni religione: la meditazione di fronte al vuoto per la via buddista, la prostrazione davanti all’Assoluto per la via musulmana, la carità per quella cristiana. Il Cristianesimo, pensa padre Marco, dovrebbe chiamarsi la religione del cibo e della bevanda: dà il corpo e il sangue di Cristo; si preoccupa di dare da mangiare all’affamato e da bere all’assetato.
E qui ritorna inevitabile, come punto centrale dell’esperienza religiosa, la presenza del Sé e dell’Altro. Ma qui il prefatore deve fermarsi, come fa ogni accompagnatore, per lasciare procedere il lettore da solo in questo incandescente luogo dove il coraggio di padre Marco continua e approfondisce il confronto tra Cristianesimo e Buddismo, un coraggio intraducibile in commenti e annotazioni, un vigore che il lettore seguirà direttamente con il più acceso interesse e con il più grande rispetto. Il prefatore si ferma, convinto che ogni via spirituale e ogni cuore, oltre la specificità di forme e sostanze, riti ed esperienze, hanno a che fare con la stessa Alterità irriducibile, con lo stesso limite insuperabile per l’esistenza.
Mazzocchi insiste sull’Eucaristia, come apice di perfezione nella concretezza di cibo e bevanda, di corpo e di sangue. Pane e vino, eucaristia e mensa quotidiana, grazia e nutrimento.
La concretezza e la fede: io vorrei provare a definire la fede come adesione alla verità della parola, all’autenticità del significato, alla concretezza come opera di Dio. E solo la presenza di Dio – ed è secondo me la prova migliore della sua esistenza e della sua presenza – può fare sì che questa percezione della verità, questa adesione siano fede e non diventino fanatismo e follia.
Due lettere di padre Marco concludono il libro. La prima, rivolta al monaco Heizen, è un invito a sentirsi uniti nella medesima testimonianza.
Come i parlanti lingue diverse si capiscono nelle stesse esigenze fondamentali del vivere, così i fedeli di fedi diverse possono sentirsi uniti nella stessa adorazione del Creatore e dell’esistenza, nella stessa ammirazione del mondo e dei viventi. Una sola è la vita, infiniti i modi di praticarla; una sola è la fede, infiniti i modi di viverla: infiniti e inobiettivabili, inconfrontabili, insindacabili.
Nella seconda lettera, rivolta alla “amata Chiesa cattolica” e al suo apparato, padre Marco insiste sulla necessità dell’agilità della fede: meno dottrina e più fede. E proprio in queste ultime pagine del libro esce, in tutta la sua luce, una delle intuizioni e affermazioni più abbaglianti di tutto il percorso: non crediamoci, noi cattolici missionari di fede – dice Mazzocchi – di essere detentori della verità, tanto da voler sradicare il pensiero originario dei popoli: piuttosto arriviamo ad accettare l’idea che nell’esperienza dell’orientale il Cristo che guida l’uomo alla salvezza è la Natura.
Allora il titolo di questo itinerario spirituale potrebbe essere Il libro della tolleranza. Se per ogni uomo il più faticoso impegno morale, nella vita, è quello di tollerare la diversità del pensiero e sensibilità dei suoi simili, simili – dissimili, per ogni religioso sembrerebbe più facile questa accettazione. Invece fuori dei luoghi comuni, si scopre che per il religioso e per il credente può essere più difficile: perché, se per ogni uomo imparare la tolleranza vuol dire mitigare i propri assoluti, per i religiosi si tratta di “convivere” con un Assoluto, Dio, che è pensato come esistenza autonoma, così che può assumere un significato di immutabilità ed eternità al quale ci si può rivolgere come alla Sicurezza Suprema. Il punto è chiedersi che cosa vuol dire “convivere”: vuol dire pensarsi in relazione con Lui e continuare a essere umili, oppure sentirlo come il Pieno che riempie i vuoti, la Perfezione che annulla i difetti? Raggiungerlo o esserne raggiunti? Esserne abitati con la fede di creature inermi che tali sanno comunque di rimanere, o invece di creature inermi che ne sono così rassicurate da sentirsi avvantaggiate e da diventare arroganti, intolleranti?
Questo libro, proprio perché si pone le più acuminate domande e percorre i più profondi labirinti, è da consigliare intensamente a tutti coloro che hanno a che fare con la fede, e tanto più a coloro che sentono di averla per qualche privilegio.
Cesare Viviani
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