Dom 11 Giu 2006 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

In quel tempo, gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato.
Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano.
E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

* SUL MONTE DI GALILEA DISSE: ANDATE IN TUTTO IL MONDO

Il Vangelo di questa domenica, ascensione del Signore, è forma­to dal brano che conclude il Vangelo secondo Matteo, quantitativa­mente il più lungo e ampio dei quattro testi evangelici. Ovviamente l’annuncio che trasmette è fondamentale per noi. Eccolo: Gesù ri­sorto si manifesta in Galilea eer l’ultimo messaggio ai suoi apostoli che invia in tutto il mondo. E la Galilea delle genti, la regione più spuria per gli ebrei, abitata dai discendenti di Dan, Aser e Neftali, i figli che il patriarca Giacobbe aveva avuto dalle schiave delle due mogli, Lia e Rachele; regione sempre turbata dalle invasioni dei vi­cini popoli pagani. Dalla Galilea Gesù aveva iniziato la predicazione del Vangelo, e sul monte della Galilea la completa. «Gli undici di­scepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva fissato». Quel monte della Galilea ha quindi un significato importante, se Gesù lo sceglie tra i tanti monti palestinesi. L’ultima manifestazione storica del Messia avviene quindi sul monte della periferia del regno sacro di Israele: avviene, diremmo, nella realtà laica e non nel tempio. Avviene sul monte: quindi nella vastità cosmica, dove soffiano i ven­ti, colpiscono i raggi solari, cadono abbondanti le piogge e le nevi, vivono gli animali della foresta.

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«Alcuni però dubitavano». La risurrezione stessa, apice della manifestazione di Cristo, non fu affatto un episodio eclatante, alla maniera dei miracoli che noi ci attendiamo. Gli apostoli giunsero a credere in Cristo risorto, uno a uno, a seconda della loro disponibili­tà a credere, chi prima e chi dopo. Sul monte dell’addio alcuni dubi­tavano ancora. Forse sono gli stessi che la sera della risurrezione avevano creduto vedendo Gesù venire a porte chiuse nella sala dove erano radunati. Poi quella fede appena iniziata di nuovo fu offuscata dal dubbio. Non esiste un modo per credere definitivamente, una volta per tutte. Quella sarebbe magia, non fede. La fede si rinnova e si riattua ogni giorno, risorgendo dalle ceneri della fede precedente. Anzi, la fede che è vera, per un suo dinamismo interiore, suscita sempre nuovi dubbi. Quelli che non dubitavano mai erano i sacerdo­ti del tempio; non dubitarono nemmeno quando i magi venuti dal­l’oriente dissero che avevano visto la stella che indicava la sua nasci­ta. Il monte della Galilea delle genti è quindi anche la realtà del dub­bio che sempre accompagna l’uomo. Cristo si manifesta là, e non dove si vantano certezze o fondamentalismi.«Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Il potere in cielo e in terra conferito a Cristo non ha nulla a che fare con i poteri del mondo che si impon­gono dall’esterno con la violenza. È invece il potere del non imporre nulla, perché Cristo per ognuno di noi altro non è che il nostro bene, l’aria pura che purifica il nostro sangue. Anche se gli uomini lo met­tono a morte, risorge ancora e sempre più luminoso. Ciò che gli uo­mini non riescono mai a uccidere è vero ed eterno.

A Cristo è dato ogni potere in cielo e in terra, perché non frappo­ne nulla di personalistico tra sé e noi. Il suo dominio è servizio puro.

La morte in croce l’ha verificato: «Pur essendo Figlio, imparò tutta­via l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 7,8-9). Ve­rificato e reso perfetto dall’obbedienza e dalle cose che patì, Cristo ascende al cielo e siede alla destra del Padre. È il Figlio, è il Logos: quindi è il fratello universale. Il cielo fisico è la calotta che avvolge la terra: Cristo sale al cielo, perché il cielo esprime bene la dimensione del suo cuore che avvolge tutto. Cristo è universale e nessuno può trattenerlo dalla sua parte. La Chiesa non è quello spazio che contie­ne Cristo e lo dispensa. È invece il sacramento che testimonia che Cristo contiene il cielo e la terra; e opera ovunque. La Chiesa non è né il tempio di Gerusalemme, il sistema religioso, né il mondo popo­lato dalle genti. È piuttosto il monte della Galilea, terra di confine tra il tempio e il mondo, dove il Cristo raduna gli apostoli, li benedi­ce e li invia.

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«Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». L’ascensione del Signore evidenzia la gloria della Chiesa. Cristo si ritira alla destra del Padre, perché ha fiducia nella sua Chiesa in cui egli continua ad abitare nello Spirito. La gloria della Chiesa è quella di non mettere in evidenza se stessa, ma di essere trasparenza del Cristo che opera oggi nel mondo. L’invio a battezzare tutte le nazioni esige dalla Chie­sa un cuore limpidissimo, capace di vedere ogni nazione come la ve­de Cristo. Occorre salire in alto, più in alto della Chiesa stessa e se­dere alla destra del Padre.

p.Luciano

* TUTTI I GIORNI

Il grande maestro cinese Unmon Bunen (Yun men Wen yen, 864-949) coniò un’espressione che si sente ripetere spesso anche og­gi nei monasteri Zen in Giappone: Ogni giorno, ogni giorno, ecco un magnifico giorno. Questa frase si usa di solito per incoraggiare il monaco stanco, affaticato, depresso, per dirgli che ogni giorno è tut­to quello che c’è, la vita nella sua interezza, e che quindi conviene prenderla bene. Ma in realtà questa espressione non ha solo un si­gnificato psicologico, non è destinata solo all’incoraggiamento: è una descrizione della realtà che ben si sposa, mi pare, con le parole conclusive del Vangelo di Matteo.

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Dobbiamo avere la pazienza di guardare quell’antica frase un po’ più da vicino. In giapponese suona così: Nici nici, kore kō nici. Nici vuol dire giorno. Kore vuol dire questo (o anche ecco). Kō vuol dire mi piace. La traduzione letterale è quindi “un giorno, un giorno, questo è un giorno che mi piace”. Cioè, ogni giorno è un buon giorno. Ma avviciniamoci ancora un po’. Abbiamo detto che kō vuol dire mi piace; e infatti è l’ideogramma che si usa per esprimere piacere, gra­dimento, desiderio, attrazione. Gli ideogrammi sono disegnini, a volte incomprensibili, a volte dal significato trasparente. In questo caso, il disegno rappresenta un bambino di fronte a una donna: è il bimbo che sta con sua madre. Quel piacere, quel gradimento, quel­l’attrattiva, sono il sentimento, l’emozione, più ancora, l’abbandono fiducioso e dimentico di sé del bambino fra le braccia della mamma. Ecco il significato vero della frase: ogni giorno sono in braccio alla mamma. Giorno bello, giorno brutto, ogni giorno ha la sua storia e le sue vicissitudini. Non ci sono due giorni eguali, e non è vero che siano tutti belli: ce n’è anche di orribili. Ma ogni giorno, sempre, nel bene come nel male, non mi allontano mai dall’origine della mia vi­ta: e se mi affido, essa mi sostiene fra le sue braccia.

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Ecco, io sono con voi tutti i giorni. Non è una promessa di tempi felici, una consolazione a buon mercato. Nel momento in cui Gesù invia i suoi discepoli, sa che li manda verso le difficoltà, verso i peri­coli, le sofferenze e gli scoramenti. Come estremo saluto e viatico, come ultime parole, non dice grandi frasi, non pronuncia benedizio­ni solenni: dice ciò che una madre direbbe a suo figlio, lasciandolo: sarò sempre con te. Ma qui, non è solo la promessa dell’affetto pe­renne: è il riconoscimento di una realtà che non si vede, forse, ma non per questo è meno vera. Sono con voi ogni giorno, fino alla fine del mondo perché sono la via, la verità, la vita. La via, la verità, la vi­ta con noi: questa è la buona notizia, il Vangelo. Proprio per questo ogni giorno è un buon giorno: perché non c’è un solo giorno, non c’è un solo momento di tempo, che io non sia avvolto dalle braccia della vita, braccia a volte amorose, a volte crudeli, ma sempre fonte di vi­ta, di verità, di via, se imparo a affidarmi ad esse. Chi abbandonan­dosi non si sente abbandonato può dire con sincerità: ogni giorno, ecco il tempo accettevole.

Jiso

* DENTRO LA REALTÀ

Chi intraprende studi liceali secondo un orientamento tradizio­nale, oltre a un impegno sicuramente notevole, sa di dover affronta­re lo studio delle lingue classiche: il greco e il latino al liceo classico, il solo latino al liceo scientifico. Considerando il latino, ci si accorge, a mano a mano che si procede nello studio della lingua, che le cono­scenze teoriche, pur essendo assolutamente indispensabili, non sono però del tutto sufficienti a garantire una buona traduzione. Occorre infatti la capacità di calarsi dentro il testo intuendo, prima ancora di consultare il vocabolario, la corretta costruzione della frase e aven­do una prima idea, anche se vaga e approssimativa, del suo significa­to. È facile immaginare che il compito dell’insegnante sarà abba­stanza agevole nel momento in cui illustra le regole, ma sarà molto più difficile nel momento in cui si passa alla pratica, cioè alla tradu­zione del testo, richiedendosi in questo caso anche una capacità in­tuitiva che non può essere insegnata.

Come può dunque questo ipotetico insegnante aiutare un ipote­tico allievo che, nonostante conosca le regole, incontra difficoltà a tradurre? Una possibile soluzione potrebbe essere che l’insegnante stesso traduca la frase esplicitando e scomponendo quel ragiona­mento intuitivo che l’allievo non sembra possedere. In sostanza l’in­segnante cercherà di mostrare, passo dopo passo, come lui riesca a tradurre suggerendo quello che potrebbe essere un metodo efficace. A questo punto si attua il passaggio significativo dall’insegnamento delle regole alla comunicazione di un’esperienza.

Nella situazione descritta è possibile individuare tre elementi si­gnificativi: la teoria, ossia l’insieme delle regole; il contesto, cioè il brano o la frase che deve essere tradotta; l’esperienza, che consiste nel tradurre qui e ora, operazione nella quale le regole e il testo, coadiuvate da una personale intuizione, entrano in rapporto e dan­no frutto.

Anche nella nostra vita, a ben vedere, ci troviamo sempre in una situazione analoga a quella descritta: da una parte ci sono i principi, che possono essere le nostre convinzioni morali oppure quelle idee generali che ci siamo fatti riguardo all’esistenza, e che rappresenta­no per noi una sorta di chiave interpretativa della realtà; dall’altra la situazione nella quale concretamente ci troviamo a operare: la fami­glia, il lavoro, gli amici, gli avvenimenti nei quali, nostro malgrado, ci troviamo coinvolti. E noi siamo continuamente chiamati, nel no­stro quotidiano operare, a mediare, a scegliere, tenendo conto del reale che ci vincola e dell’ideale che ci guida.

Nel brano del Vangelo di questa domenica Gesù, prima di ascendere al cielo, si rivolge ai suoi apostoli dicendo: «Andate dun­que e ammaestrate tutte le nazioni battezzando le nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato». Non dice: «insegnando loro ciò che vi ho co­mandato», ma «insegnando loro a osservare ciò che vi ho comanda­to». Egli dunque, tornando all’esempio dell’insegnante di latino, chiede ai suoi apostoli di tradurre, non solo di insegnare delle regole; chiede cioè loro di calarsi nella realtà concreta illuminandola e tra­sformandola, non di guardarla dall’esterno.

In quanto laica, una difficoltà che spesso incontro nell’accogliere l’insegnamento che viene offerto attraverso l’omelia, consiste pro­prio nel percepire che ciò di cui il sacerdote parla non è frutto di esperienza. È un po’ quanto avviene nei corsi d’aggiornamento per gli insegnanti: il relatore è quasi sempre un teorico che non sa o ha dimenticato cosa sia veramente insegnare, e finisce col fornire delle indicazioni che sembrano ottime per migliorare la qualità dell’inse­gnamento, ma che in realtà il più delle volte non sono concretamen­te attuabili.

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