Sab 29 Lug 2006 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

prese i pani

e dopo aver reso grazie

li distribuì

Dopo questi fatti, Gesù andò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e una grande folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi. Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero. E quando furono saziati, disse ai discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: «Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo.

  • Il Pensiero Divino si fa Carne: Nutriti dalla Vita Altrui

Il lungo discorso di Gesù sul pane disceso dal cielo, che occupa tutto il capitolo sesto del Vangelo secondo Giovanni, dovrebbe essere meditato come una sola unità evangelica. Se lo si divide in più meditazioni, è solo per motivi psicologici: per facilitare la digestione di vari aspetti dell’unico messaggio. Così si comporta anche la liturgia della Chiesa che nell’anno liturgico B legge il lungo discorso suddiviso in cinque domeniche, che cadono sempre in piena estate. È segno che a questo discorso si riconosce un’importanza speciale. Anche noi lo meditiamo suddiviso in cinque meditazioni, seguendo la norma liturgia e chiedendo scusa se in tutte ritornano gli stessi motivi. Perché il discorso del pane è così fondamentale?

Comprendere la via del pane è comprendere Cristo, è entrare nella perfetta sintonia con il suo sentire. Noi diventiamo Cristo, mangiando e bevendo Cristo! Tutte le religioni sono un cammino verso la verità e verso la santità. Ma ciascuna accede da una sua porta e ciò contraddistingue i suoi insegnamenti e i suoi riti. La porta, ossia l’atteggiamento di fondo che dischiude verso la verità nella Chiesa cattolica è senz’altro l’eucaristia.

I fratelli musulmani entrano nella via della ricerca di Dio prostrandosi a terra. La prostrazione è per loro la porta che immette nel cammino verso Dio. Nella lingua araba prostrazione si dice Islam. Nell’atto di prostrarsi a terra i musulmani sono purificati e salvati: nella prostrazione tutto va al suo posto, tutto torna. L’uomo prostrato a terra è l’uomo vero!

I fratelli buddisti riconoscono la meditazione silenziosa e consapevole come l’atteggiamento che riconduce tutto alla sua fisionomia originaria. Nello stare seduto fermi e silenziosi, tutto fa ritorno al suo posto, tutto entra nella pace. L’uomo, sedendo in zazen, diviene vero!

Nel Vangelo Gesù indica ripetutamente il mangiare e il bere come le due funzioni della vita che possiedono la chiave della porta che immette nella giustizia di Dio: ossia che redime tutto al modo giusto che Dio vuole per ogni cosa. Gesù paragona il regno di Dio a un banchetto: «Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto… » (Mt 22,1-14). Nel giudizio ultimo, quando ciascuno sarà verificato sul valore eterno della sua vita, la domanda rivolta sarà questa: se ha spezzato il pane con l’affamato e dato da bere all’assetato. Dirà: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere… In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,34-40). Il merito eterno di ogni esistenza umana è verificato dal rapporto di ciascuno con il cibo e con la bevanda: è eternamente benedetto chi ha condiviso il cibo riconoscendolo un dono e un’offerta; è eternamente maledetto chi lo ha trattenuto solo per sé, come suo possesso.

La sera della risurrezione due suoi discepoli erano in fuga, scoraggiati e pessimisti: «Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele…!», si dicevano. Una terzo viandante si accostò a loro: era la presenza del Cristo, ma non lo riconobbero. Camminando con lui discussero di Cristo; ma non comprendevano ciò che egli diceva. La sera, entrati in una locanda, seduti attorno alla tavola, egli «prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc 24,29-31).

Perfino la vigilia della passione i suoi discepoli, ignari della gravità di ciò che stava per accadere, improvvisarono una lite su chi fra loro fosse il primo e quindi a chi spettasse l’onore di sedere vicino al maestro durante la cena della pasqua. In quel trambusto di rapporti umani resi violenti dall’egocentrismo, egli, perfettamente calmo e profondamente radicato nella speranza, compì il gesto testamento di tutto il suo Vangelo. «Quando fu l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”. E preso un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio”. Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi!» (Lc 22,15-21).

Il bisogno quotidiano di cibo e di bevanda è l’esperienza base che ci inizia alla comprensione del Vangelo. La funzione divina e insostituibile del cibo e della bevanda è il punto di partenza giusto per incontrare e seguire Cristo. Ma è anche il segno che ci ha dato per comprendere e desiderare il punto d’arrivo verso cui, giorno dopo giorno, indirizziamo i nostri passi: ossia il regno dei cieli. Nutrendoci del cibo e della bevanda cominciamo a capire che tutto è grazia che riceviamo; ricevendo giorno dopo giorno la grazia del cibo e della bevanda veniamo battezzati nella carità di Dio e trasformati anche noi in cibo e bevanda, in Cristo. «Fate questo in memoria di me».

Nel pane e nel vino Gesù indicò presente e operante la funzione divina che redime tutto e tutti. Il pane e il vino, il cibo e la bevanda, sono la carne del Pensiero divino che salva.

Nessuno può nutrire se stesso con se stesso, nemmeno la persona più ricca, sana e potente di questo mondo. Ogni essere vivente si nutre della vita degli altri esseri. La lattuga dà la sua foglia che è come il suo polmone; l’albero dà la polpa succosa dei suoi frutti che è il nutrimento del proprio seme; la spiga di frumento dà i suoi chicchi che sono il seme a cui affida la sua sopravvivenza; l’ape dà il nettare che è il nutrimento per la grande famiglia che popola l’arnia nell’inverno; il pesce e l’animale danno i propri muscoli, danno letteralmente il proprio corpo. Il vino è il sangue dell’uva, l’aranciata è quello dell’arancia, il latte è quello del mammifero che si trasforma in dolce liquido per nutrire i suoi piccoli, in quantità così esuberante da elargirne anche ai piccoli delle altre specie. Gli animali, contro il naturale istinto dell’auto conservazione, sono depredati violentemente del loro corpo e del loro sangue. Sembra contro natura; eppure la stessa natura per l’equilibrio generale lo vuole. Le migliaia di uova espulse nell’onda marina dal pesce madre non possono svilupparsi se non in minima parte: altrimenti il mare non potrebbe contenere e nutrire tutte le sue specie viventi. Il ciliegio matura a migliaia le ciliegie, tutte con dentro il nocciolo per riprodurre un nuovo ciliegio. Ma basta una sola ciliegia di una sola annata per garantire la continuità della specie. Le altre ciliegie sono offerte in cibo alla fame dell’universo. Così l’animale più forte preda quello più piccolo; così il pastore macella l’agnello per ottenere la carne a nutrimento della sua famiglia. Se il pastore non immolasse gli agnelli, risparmiandone solo qualcuno per la conservazione della specie, questi cresciuti si darebbero guerra fra loro, fino al recupero dell’equilibrio che natura vuole.

È la grande legge della natura: tutto ciò che vive si nutre del vivo corpo e del vivo sangue degli altri esseri viventi. Così deve essere; per questo ogni specie produce smisuratamente di più di quanto la conservazione della specie esige. Anche l’uomo è dotato di valori, quali l’intelligenza e la volontà, che deve usare per il bene di tutte le altre creature. Perché la legge del cibo detta legge: nessuno vive di se stesso e quindi nessuno deve vivere per se stesso.

Ogni giorno prima di assumere il cibo, come Gesù prendiamolo fra le mani, eleviamolo verso il cielo, ringraziamo, benediciamo; e quindi dividiamolo affinché nutra tutti. Oggi sul cibo si perpetrano tanti peccati, considerandolo come occasione di piacere o di vanto nei confronti di chi non se lo può permettere. Quel cibo e quella bevanda che originariamente hanno la funzione di nutrirci nella legge dell’amore. Non sia mai che usiamo ciò che è grazia senza dire grazie!

Ringraziamo: con la parola o con il silenzio o con l’atteggiamento del corpo. Chi non sente il dovere di ringraziare davanti al cibo e alla bevanda, non sentirà mai quello di dire grazie davanti a Cristo «il pane disceso dal cielo».

p.Luciano

  • Due Visioni

Non potremo mai comprendere la moltiplicazione dei pani e dei pesci se la osserviamo con gli occhi del buon senso ragionevole. Dico questo non solo relativamente al significato profondo ma anche al funzionamento concreto della moltiplicazione: oltretutto, significato e funzionamento non si possono separare l’uno dall’altro. In questo episodio così significativo sono l’una di fronte all’altra due visioni della realtà: una, rappresentata qui volta per volta da Filippo, da Andrea e dalla gente, è la visione del buon senso ragionevole, la cosiddetta visione mondana, economicistica e meccanicistica, per la quale non si può comprare da mangiare per cinquemila persone con duecento danari, né si può sfamarle con cinque pani e due pesci, e, se mai qualcuno riesce a operare queste cose impossibili, allora costui bisogna farlo re, perché usi i suoi poteri eccezionali per il vantaggio del suo popolo. È la visione condizionata dalle categorie precostituite, che prima struttura il pensiero secondo dati parametri e poi fa vedere le cose come vengono pensate secondo quel pensiero invece che come sono. Questa visione, tra l’altro, è quella che chiama miracolo questo segno di Gesù: lo chiama miracolo perché, visto che esula dall’ambito delle categorie con cui per convenzione prendiamo le misure alla realtà, è molto più comodo chiamare miracolo ciò che non rientra in quelle categorie, facendocelo rientrare sotto la categoria miracoli, piuttosto che mettere in discussione la visione che parte dalle categorie, per guardare la realtà con un altro punto di vista. L’altra visione è quella offerta da Gesù, la visione che vede la realtà come regno di Dio, con l’occhio libero di cogliere il significato e il funzionamento della realtà: creazione in continua fase creativa, in cui la creatura, proprio perché creatura, partecipa della creazione come creatrice.

«Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Per dire comprare il greco usa qui un termine particolare, agorazo, che vuol dire mercanteggiare, comprare secondo le leggi del mercato: il regno del do ut des, del dare per ricevere, del non si fa niente per niente. Gesù evoca questo modo di vedere, che è da sempre il più diffuso, non perché sia il più verosimile, ma perché è il più comodo, siccome è un correre sui binari della convenzione senza mettere in moto la propria visione creativa: così fan tutti, così va il mondo….Quel modo di vedere informa di sé la realtà e la ostacola nel suo libero fluire.

«Rispose Gesù: “Fateli sedere”. C’era molta erba in quel luogo». Ecco la porta dell’altro mondo. In questa pausa il tempo è sospeso, e l’erba brilla e oscilla al sole e al vento, fra gli uomini seduti. È sospeso il tempo, è sospeso il giudizio: il mondo delle quantità è dissolto. Allora la realtà fluisce liberamente, non ostacolata da calcoli, categorie, regole. Un antico maestro zen dice: «Quando la grande funzione appare evidente, non esiste regola». Allora è il momento di rendere grazie – eucarixw – eukarizo. Perché tutt’altra visione illumina la realtà, e siamo nel mondo del do ut datur, del do perché sia dato, dove ogni cosa trova il suo valore e la sua dignità d’essere in se stessa e non in rapporto a un giudizio di merito a priori: quindi ogni cosa svolge la sua funzione inesauribile. Più certa è la visione della profondità inesauribile della funzione di ogni cosa, più quella funzione mostra la sua inesauribile profondità: più superficiale è il giudizio che applichiamo sulla funzione di ogni cosa, più quella funzione si immiserisce e avvizzisce. Così chiamare miracolo ciò che è avvenuto fra l’erba di Tiberiade rischia di essere un modo di avvilire l’accaduto. Non c’è stata una moltiplicazione miracolosa: il cibo è stato libero di svolgere la sua funzione di cibo, che è quella di nutrire tutti, e non solo me o te o noi, anche quando ciò sembra impossibile, perché è poco: è stato libero di farlo perché qualcuno, in questo caso Gesù, ha visto con profonda convinzione che quella è la vera natura del cibo, gli ha reso grazie, e ha fatto fino in fondo la sua parte perché tutti avessero da saziare la fame. Il miracolo consiste nel fare ognuno fino in fondo la propria parte di fronte e dentro alla realtà, anche quando il proprio compito appare impossibile.

Ma la gente, noi tutti, non ce la facciamo a mollare la visione che avvilisce: crediamo di credere ai miracoli magici, e per di più li vogliamo far fare a qualcun altro, da osannare o abbattere a piacimento. «Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo». Gesù sa di aver fatto ciò che andava fatto, ciò che lui doveva fare: sapeva bene quello che stava per fare.

Poi, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo, lontano da ogni trionfalismo. Proprio lì, sulla montagna, tutto solo, ognuno di noi è uno con Gesù. Essere uno con Gesù non vuol dire essere come Gesù, avere il suo carisma, la sua fede, la sua potenza, la sua personalità: vuol dire essere insieme nella visione della realtà. Non c’è bisogno che Gesù racconti cosa fa tutto solo in montagna, perché ognuno lo sa: è lì con se stesso, di fronte alla realtà, di fronte a ciò che ha fatto e al da farsi, e si fa dire chi è da ciò che fa e da ciò che deve fare.

Le visioni inconciliabili non sono le diverse visioni religiose, che dimostrano piuttosto la ricchezza inesauribile della verità: chi definirebbe inconciliabili la montagna e il mare? Le due visioni inconciliabili sono queste, che il Vangelo ci mostra: la visione ordinaria, che non vede l’illimitata funzione nel limite, e perciò lo mortifica, e la visione reale, che riconosce l’illimitata funzione nel limite, e perciò lo vivifica. Certo, la vita abbraccia entrambe le visioni: ma esse restano inconciliabili perché diametralmente opposte. Spesso, molto spesso si ammantata di abito religioso la prima visione: ma lì non c’è la porta che Gesù ci mostra.

Procuratevi non il cibo che perisce,
ma quello che dura per la vita eterna

Jiso

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