Lun 11 Set 2006 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

non udire e non parlare

Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apritil». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti».

* La saliva e la parola

Ci può colpire nel Vangelo di questa domenica come Gesù appli­chi tutta la sua energia per aprire le orecchie e la bocca al sordo­muto: «Portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita ne­gli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua: guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effatà”, cioè: “Apriti”». La saliva scioglie il cibo e lo predispone al metabolismo del ciclo della vita. Senza la saliva il cibo resterebbe un corpo estraneo e non potrebbe mai essere assimilato. Così l’amore scioglie le parole e le predispone a essere ascoltate e comprese. L’amore non è dire parole piacevoli, ma dire ogni parola attingendola dal silenzio del cuore, quella dolce come quella amara. Consideriamo anzitutto il fatto fisiologico per cui chi è sordo è anche muto: se le orecchie non sentono, nemmeno la bocca parla. È evidente che la parola nasce dall’ascolto. Nessuno nasce disponendo già dell’uso della parola; ma il bambino per anni e anni deve ascoltare per diventare capace di parlare. Ci sono bambini e anche adulti che in ambienti dove c’è indifferenza e tensione sono incapaci di parlare e restano balbuzienti o muti. Invece riescono a parlare correttamente negli ambienti dove c’è calore umano. Per ascoltare occorre che le parole abbiano il calore del sentimento, del cuore. Così anche oggi ci sono numerosi sordomuti, che, pur avendo lingua e orecchie efficienti, non possono né ascoltare né parlare, per­ché l’ambiente in cui vivono manca del calore che scioglie le parole.

Il sordomuto non percepisce i suoni, né li emette. Il suono è un’onda che si propaga da una fonte che la genera e va a rinfrangersi su tutto ciò che incontra nel suo cammino. Ogni suono ha la sua vi­brazione e chi ascolta, per ascoltare, deve lasciar vibrare il timpano del suo orecchio sulla stessa onda. Così chi parla e chi ascolta fisica­mente si sintonizzano sulla stessa onda. L’onda che esprime tutti i suoni di tutti gli esseri è il silenzio, l’orchestra cosmica e universale. Come il pane insapore si confà con tutti i sapori dei vari cibi, così il silenzio, privo di suoni particolari, contiene tutti i suoni ed è l’am­biente in cui ogni suono si esprime.
L’amore è come il silenzio: non è nulla in particolare ed è tutto. L’amore è l’ambiente in cui anche il sordomuto si dischiude ad ascoltare e a parlare. Come una mamma che insegna le prime parole al bambino!

Qualcuno minaccia scomuniche a chi abbandona l’insegnamento della sua religione, forse per aderire a un’altra. Ma l’insegnamento della religione non si trasmette incutendo paura. Ogni parola reli­giosa può essere ascoltata e poi venire detta soltanto nell’ambiente del silenzio e dell’amore. «La carità è paziente, è benigna la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo in­teresse, non si adira, …tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La ca­rità non avrà mai fine» (Cor 13,1-8).

Quando sediamo in zazen, immobili e silenziosi, la nostra bocca e le nostre orecchie vengono dischiuse ai suoni della realtà autentica. È amando il silenzio che si diviene capaci di amare i suoni e le pa­role. Chiunque ha la grazia di avere la bocca e le orecchie dischiuse, diventi un fratello per chi è sordomuto perché frastornato dai ru­mori del mondo. Come Gesù deve condurre il fratello in disparte e trasmettere fisicamente la parola attraverso la condivisione paziente del cammino della vita. Nell’aiuto vicendevole e comunitario si im­para la parola e si diventa capaci di trasmetterla ad altri. La vita co­munitaria e familiare è la via. Guardando il cielo!: consapevoli che tutto quello che abbiamo ci fu dato. La parola e il suono sono un’onda e se l’onda si ferma non è più un’onda. La parola è in noi se la sappiamo trasmettere.

Sembra paradossale, ma è vero: il silenzio educa alla comunione; la chiacchiera a piacimento invece isola nell’orgoglio. Chi sa tacere, sa parlare. Chi non sa tacere, quando parla continua a parlare a se stesso. Il silenzio dello zazen e l’amore dell’eucaristia sono la via.

p.Luciano

* Sordo e muto un po’ anch’io

Il Vangelo secondo Marco è duro da commentare. Nel suo pre­gio, di essere sobrio e scarno, sta anche la sua difficoltà: non ti dà ap­pigli per interpretazioni illuminate, non ti facilita a spiccare il volo. Come ascoltatore del Vangelo sono grato a questa essenzialità. Ho imparato a poco a poco ad apprezzare questo Vangelo, che un tempo mi pareva privo di fascino. Ho imparato ad apprezzarlo da quando mi sono reso conto che più procedo nella vita e nel cammino che chiamo religioso, e più mi accorgo di non sapere. Quando muo­vevo i primi passi, ne sapevo molto di più. Allora non amavo il Van­gelo secondo Marco, preferivo leggere il Vangelo secondo Giovanni, che mi pareva più spirituale, più adatto a me.

Ora invece so di sapere sempre di meno. Non perché le mie fa­coltà si siano affievolite, ma perché mi accorgo di ciò che non so, mentre prima mi occupavo di ciò che credevo di sapere. Ma le cose che credevo di sapere oggi mi appaiono in gran parte proiezioni di fantasie, affermazioni apodittiche prese per verità assodate, senten­ziosità superficiali contrabbandate (magari in buona fede) per au­tentica conoscenza.

Confesso di sentirmi molto meglio ora, che so di non sapere, rispetto a prima, quando credevo di sapere. E comincio ad apprezzare il Vangelo secondo Marco, che mi lascia lì, senza pa­role, di fronte agli eventi, nudi e crudi, senza volere dimostrare niente. Mi riposo di fronte al Vangelo di Marco, come dentro a una di quelle chiese di montagna fatte solo di muri e di legno, un altare e una croce soltanto, e qualche lama di luce che entra dalle finestre: non serve altro, è così evidente che la chiesa non è confinata dai muri, che è chiesa anche fuori, tutt’intorno, sul monte. Mi sento sordo e muto un po’ anch’io, perché non sento niente di particolare e non mi viene niente da dire. Appare spudorato dire questo, pen­sando a chi, sordo e muto davvero, vorrebbe comunicare ed è impe­dito. Non sto facendo l’elogio della sordità e della mutezza. Peròquando siamo in silenzio, raccolti, senza stare ad ascoltare nulla, senza avere da dire nulla, siamo forse più vicini alla verità, più suoi amici. Per esempio, quando sediamo in zazen, sordi e muti per libera scelta;rinunciando al dire e all’udire, al toccare e al guardare, al fare e al conoscere, sentiamo che c’è, là in fondo, la pace con la vita. Sen­tiamo, anche se non la possiamo afferrare, la verità che c’è in quel si­lenzio, che non è privazione ma una porta per entrare dentro la pro­pria vita così com’è, senza aggiungere nulla.

Ho approfittato di questo brano del Vangelo per dire queste cose, perché, fra tutti, è uno di quelli che più mi lascia senza parole. Non mi viene niente da dire, in particolare: ma siccome non voglio che questo non avere niente da dire sia una mancanza, ma una forma espressiva, ho pensato di esprimerlo così. Mi sembra anche consono all’atmosfera di silenzio che avvolge Gesù e l’uomo sordo-muto, portato in disparte, rotta solo da quel sospiro e dalla parola «Effatà». E poi la raccomandazione di sempre, di fare silenzio, di non andare in giro a raccontare: quel gesto Gesù l’ha fatto per quell’uomo, il loro incontro non riguarda altri. A fronte di questo pudore, un gran parlare, un gran stupore, pronti a mutarsi in disprezzo e in abban­dono quando finisce il tempo dei segni eclatanti, e inizia il tempo della debolezza.

jiso

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