Gio 21 Set 2006 Scritto da Pierinux 1 COMMENTO

farsi piccoli e portare la croce

Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio del­l’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccide­ranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà». Essi perònon comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni. Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo lungo la via?». Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande. Allora, se­dutosi; chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuoi essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: «Chi accoglie uno di questi bam­bini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

* I primi della classe e lo scugnizzo

Nel cuore di chi ha la possibilità di fare un cammino spirituale si annida molto spesso l’aspettativa nascosta di perseguire la propria santità, la propria pace interiore, la propria illuminazione, la propria realizzazione, a cui diamo i nomi più affascinanti: virtù, santità, illu­minazione! È ovvio che ognuno miri al bene e alla pace. Ma è possi­bile mirare al bene e alla pace attraverso il servizio umile alla vita, oppure attraverso il dominio sulla vita. Il Vangelo toglie le maschere e chiama il nostro cammino religioso con il suo nome proprio: quando sotto il bel nome del bene e della pace noi nascondiamo la nostra voglia di avere il bene per noi e di vivere in pace in modo egoistico, il Vangelo chiama tutto questo larvato cammino spiri­tuale: orgoglio spirituale.

Gesù insegnò: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). Mitezza o prepotenza? Se miriamo a diventare i primi della classe è segno che non siamo conciliati con la vita e con la realtà, ma piuttosto siamo dominati dall’idea fissa di raggiungere una realtà di­versa, luminosa, esaltante. Riteniamo quella come la realtà vera, mentre quella vera e reale di tutti i giorni sarebbe illusoria. Uno può rigirarsi nelle sue idee tutta la vita, mai balzando oltre, mai comuni­cando con l’armonia divina e reale. Il vero cammino spirituale non èl’inseguire una propria idea, ma l’offrirsi alla vita e alla realtà cosìcome ei è donata e come rifluisce in noi, senza condizionarla: è il conformarci operoso e generoso alla vita eterna, alla volontà divina, ambito autentico della nostra natura.

Non esiste nessuna bella figura da aggiungere alla nostra voca­zione originale. Nemmeno i sacramenti della Chiesa, nemmeno le pratiche dello Zen aggiungono qualcosa. La creazione di Dio non è qualcosa come se noi in un primo tempo fossimo di seconda classe; ma poi, grazie ai sacramenti e alle nostre pratiche, passeremmo gli esami di riparazione e assurgeremmo a realtà di prima classe. La creazione è divina e perfetta fin dall’inizio.

Il cammino spirituale autentico non è quello di correggere la creazione di Dio, diventando migliori del pensiero in cui Dio ei ha pensati creandoei dal nulla. È invece l’offrirei alla Via del Padre, è il conformarci al suo pensiero originale. È da questa profonda confor­mazione alla propria origine che scaturisce il frutto succoso di essere autentici là e come la vita ci richiede. Il frutto tanto più è succoso, quanto più è naturale, genuino, senza aggiunte. Questo frutto è, dice Gesù, il servizio.

Ci dobbiamo domandare che significhi servizio, perché po­tremmo di nuovo muoverei condizionati dalle nostre idee fisse e dalla nostra cultura. Servizio per qualcuno potrebbe significare sol­tanto il fare delle azioni utili per chi è nel bisogno. Secondo questo modo di pensare il bambino abortito o affamato o handicappato, l’ammalato, l’anziano non autosufficiente ecc., dato che non possono compiere nessun servizio verso gli altri ma soltanto riceverlo da loro, sarebbero esclusi dall’annuneio del Vangelo. Il bambino che Gesù addita accarezzandolo rappresenta tutti i bambini del mondo. Il primo grande servizio annunciato dal Vangeio è il nostro esistere là e come ei vuole Dio: così c’è il servizio di stendere la mano per do­mandare, e c’è quello di porgere la mano per offrire. C’è il servizio di offrire l’aiuto, e c’è il servizio di offrire al fratello l’occasione di aiutarsi e di aiutare. «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto que­ste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»(Mt 25,40). Con queste parole Cristo invita nel regno di Dio chi ha dato da mangiare e da bere al fratello piccolo che è nel bisogno, o lo ha vestito, curato, visitato. Chi aiuta il bisognoso è l’uomo che, creato a immagine di Dio, opera il bene. Ma il bisognoso che suscita il gesto della carità attraverso la sua povertà è Cristo stesso, è Dio. Dio è nulla di tutto ciò che esiste, è oltre, Dio è amore (lGv 3).
Chi vive senza compiere alcun cammino religioso offre a chi fa il cammino religioso l’occasione della testimonianza. Il nostro cam­mino spirituale, i nostri ritiri, la nostra meditazione (zazen), la nostra eucaristia resterebbero sterili, sarebbero ripetitivi e monotoni, se il fratello ateo o non religioso non ci offrisse l’opportunità di condivi­dere i nostri meriti con lui e lui i suoi con noi. L’operaio dell’ultima ora riceve la stessa rimunerazione di quello della prima ora. Il se­condo perché ha sopportato il peso del lavoro, il primo il peso della ricerca del lavoro.
p.Luciano

* Il più grande

Come già accennato nel commento al Vangelo di domenica scorsa, anche oggi ricorre l’annuncio della passione. Il brano odierno ci mostra tre scene distinte: la prima, Gesù che istruisce i discepoli, i quali non comprendono; la seconda, Gesù che interroga i discepoli su ciò di cui parlavano, e quindi inverte la scala di valori su cui loro basavano le proprie valutazioni; la terza, in cui dà indicazioni prati­che di comportamento, consequenzialmente al discorso fatto fino ad allora. Un unico filo unisce infatti le tre scene: è a causa della man­cata comprensione della necessità della passione che i discepoli si in­gannano sul senso di essere il più grande o il primo, e quindi mostra plasticamente come si deve fare per accogliere nel modo eccellente il suo insegnamento. Notiamo che Gesù non stigmatizza il desiderio a essere il più grande, ma lo riconduce nel giusto orientamento: il più grande non è un comparativo né di maggioranza, né assoluto nei confronti di altri meno grandi, perché altrimenti saremmo già fuori della via, nel mondo del relativo e della competizione. Il più grande è ciascuno di noi.

Ma concentriamo l’attenzione sulla terza «scena». Il bambino in questione doveva essere abbastanza piccolo. L’impressione (leg­gendo anche i brani di Matteo e Luca che riferiscono lo stesso episo­dio) è che si tratti di un bimbo che giocava lì vicino con altri; non un neonato, dunque, ma neppure più grande di sei, sette anni, perché sarebbe strano prendere in braccio un bambino più grande di quel­l’età: dunque un bimbo fra i tre e i sei anni circa. Accogliere un bimbo di quell’età vuoI dire accogliere una vita che è nella piena vi­talità e, nello stesso tempo, bisognosa di ogni cura e protezione. È la vita in tutta la sua immediatezza, pienezza, spontaneità, e, insieme, nella sua fragilità, dipendenza, formazione. È un gesto d’amore e in­sieme un impegno. Chi non sa rinunciare alle sue idee astratte sull’a­more per concentrare la sua capacità di amare in un essere concreto e reale che è di fronte a lui, come nel caso di quel bambino, non può
dire di amare davvero. ­

Nel buddismo si dice che ogni attimo della propria vita va ac­colto con l’atteggiamento e il comportamento attivo che è il pro­dotto di tre caratteristiche: la magnanimità (che è non discrimina­zione, essere il più grande non in virtù di alcun confronto e vedere il più grande in ogni tu), la visione protettiva (che è vedere ogni cosa e creatura come la propria creatura, con l’affetto e la dedizione incon­dizionata che si ha verso la propria creatura), la gioia (il buon umore, non nel senso di una perenne allegria, ma inteso come umore buono, nel fare ciò che si fa e un volto sereno e ben disposto anche nelle difficoltà). Prendere in braccio un bimbo rappresenta in un ge­sto concreto la globalità di quegli atteggiamenti.

Cosa significa, allora, accogliere il bimbo, la vita in boccio, in nome di Gesù? Per me, significa accogliere la vita non come un ap­pannaggio personale ma come una disponibilità universale: non io che vivo per manipolare la mia vita, ma io che accolgo ogni atto della mia vita come una disponibilità della vita a farsi dar forma da me: devo quindi favorire il formarsi di quella forma, senza volergli dare esclusivamente la mia impronta, proprio come dovrebbe essere nel rapporto fra l’adulto e il bambino. Così si accoglie Cristo, così si è uno con la via. Infatti Gesù dice: «Chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato»: la vita, la mia vita, accoglie la sorgente della vita. Il più grande è chi si fa così piccolo da lasciare che la sua vita sia l’e­spressione della vita che vive la vita.

jiso

* il grande e il piccolo

Gesù, in questo passo del Vangelo di Marco, esalta i bambini e chi si fa piccolo. Nel farsi piccoli si entra nella visione umile della vita in cui si dà valore alle piccole cose. In una ballata di Goethe, Gesù insegna a Pietro che è in viaggio con lui: «Chi le piccole cose disprezza, per piccole cose poi si dà pena». Se non sappiamo essere abbastanza svegli da dare il giusto valore e rispettare le piccole cose ordinarie, il nostro cuore diventerà sempre più stretto, tanto che ri­marremo attaccati meschinamente a piccole cose e ci sfuggirà il grande significato della vita.

Le piccole cose ordinarie che ci accadono ogni giorno non vanno sottovalutate. I periodi di ritiro nel silenzio purificano l’occhio del cuore e, una volta ritornati nel mondo, alla solita vita, ciò ci per­mette di vedere le solite cose in modo nuovo, cogliendo il grande va­lore anche di un piccolo gesto o di una frase.

Qualche giorno fa eravamo a fare la nostra passeggiata quoti­diana con mio figlio e una donna anziana che veniva dalla campagna, carica di borse, mi ha chiesto timidamente un passaggio fino a un paesello vicino. Il mio primo pensiero è stato: «Che seccatura, sono stanca e noi andiamo nella direzione opposta», ma non mi sono sen­tita di lasciare a piedi quella donna dal sorriso gentile. Abbiamo ca­ricato tutto nella mia piccola macchina e siamo partiti. La gioia di quella donna è stata così grande che ha voluto regalare a Luca e a me delle uova calde calde prese dalle sue galline e da quel giorno vado sempre da lei a comprarne. Un gesto piccolo può portare molta gioia a tutti.

Rispettare le piccole cose non vuoI dire rimanere schiavi di pic­coli rituali ossessi vi; ma, per esempio, mantenere la propria casa in ordine, la cucina rassettata e i bambini ben lavati e vestiti, dà un pro­fumo a tutta la vita. Il piccolo è il veicolo del grande.

Vorrei finire citando le ultime parole di una ragazza condannata a morte dai nazisti. Nell’ultimo giorno di vita ogni piccola cosa viene vissuta e amata in tutto il suo valore:

«Ero all’aria aperta, che era piena dell’essenza della primavera, di tepore e del profumo e del bril/io dei ricordi. Il nervo nudo dell’a­nima era toccato dalla poesia del luogo comune, dall’odore di pa­tate bollite, dal fumo, dal ticchettio delle posate, gli uccelli, il cielo, essere vivi, il battito della vita quotidiana. Amalo, amatevi. Impa­rate l’amore. Difendete l’amore, diffondete l’amore, cosicché pos­siate percepire la bellezza degli ovvi doni della vita così come sto percependo io…».

(G.L.)

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Un commento

  1. Pietro ha detto:

    Gesù da ottimo osservatore della società in cui viveva, spesso critica apertamente chi detiene il potere, certamente non per sostituirsi al re di turno, come volevano i discepoli, ma per far ben capire a chi lo ascoltava che la violenza e l’ ingiustizia sono all’origine di ogni volontà di potere, piccola o grande che sia. Non ci possono essere eccezioni? Sì, “Se uno vuol essere il primo sia l’ultimo di tutti e servo di tutti” perché l’unica competizione lecita che dobbiamo avere nelle nostre vite è con noi stessi, tutto l’altro è correre per chi già ti sta superando.
    Mi colpisce molto il “se uno vuol essere il primo”, vuol dire che se non si vuole essere primi si può anche lasciarsi servire? In un certo senso sì, c’è il rischio; ecco perché subito dopo il Cristo invita i discepoli ad accogliere i piccoli: per evitare di compiacersi della propria routine, anche quella di chi ha scelto di non avere famiglia per seguire la via religiosa, e anche per bloccare ogni possibile tentativo di carriera a chiunque lo voglia veramente seguire.
    I bambini sono competitivi? Certo che lo sono, ma le loro conquiste durano solo il breve tempo del gioco, non sono mai per sempre, un attimo dopo si ricomincia da capo.
    Pietro Bizzini

    “Vorrei che l’India fosse tanto libera e forte da essere capace di offrirsi in olocausto per un mondo migliore. Ogni uomo deve sacrificarsi per la sua famiglia, questa per il villaggio, il villaggio per il distretto, il distretto per la provincia, la provincia per la nazione, la nazione per tutti. Io spero nell’avvento del Regno di Dio sulla Terra”.
    (Mahatma Gandhi)

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