Sab 21 Ott 2006 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

Il dono di Dio

E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicen­dogli: «Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiede­remo». Egli disse loro: «Cosa volete che io faccia per voi?». Gli rispo­sero: «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
All’udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Gio­vanni. Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi eser­citano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuoi essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuoi essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

* Il servizio regale

Questo Vangelo è così profondamente chiaro nel suo significato che osare un commento è come contaminarlo. Quanto mi permetto di aggiungere ha il solo scopo di riportare l’attenzione su queste sante parole, qualora la nostra mente fosse distratta da quella rou­tine per cui spesso noi ascoltiamo anche i messaggi più profondi senza ascoltarli per davvero. La domanda che Giacomo e Giovanni rivolgono a Gesù per ottenere un posto in paradiso, il posto più alto possibile in modo da stare il più possibile vicini al Signore, è assai comprensibile. Riconosciamo che anche noi avremmo fatto e tuttora faremmo la stessa domanda. Non c’è da fare i meravigliati verso l’audacia dei due discepoli. Osserviamo bene i nostri atteggiamenti religiosi e diamo loro il nome giusto. Non differiscono poi così tanto da quelli di Giacomo e Giovanni. Dopo tutto anche noi facciamo meditazione e preghiamo perché vogliamo raggiungere un certo ideale che ci sta a cuore: la pace interiore, la sicurezza di andare in paradiso e di diventare comunque una persona migliore con meno difetti. Diventare una persona migliore, ovviamente, significa per me una maggiore soddisfazione di me stesso e una maggiore stima da parte degli altri. Di conseguenza, sotto tanti nomi religiosi, di fatto anche noi miriamo a essere più soddisfatti di noi stessi, essere più stimati dagli altri e più rimunerati da Dio. A rifletterci bene ci sprona l’identica aspettativa di Giacomo e Giovanni.

Supponiamo invece che facendo il cammino religioso i propri di­fetti, anziché migliorare, col passare degli anni peggiorino. Immagi­niamoci, come spesso avviene, che io diventi sempre più irascibile, irritabile, lamentoso ecc. Non è poi così strano! Infatti, come si dice, cogli anni crescono anche i vizi. Di certo l’arteriosclerosi avanza. Prendiamo il caso di due che si sposano: finora il loro rapporto è stato generalmente idilliaco, come conviene a dei fidanzati che si amano sul serio. Sposandosi i due danno inizio a uno stile di vita così ravvicinato che senz’altro, prima o poi, scatteranno le scintille. Se non si sposassero, forse non giungerebbero mai a dubitare l’uno del­l’altro, a offendersi con le parole, a far volare qualche ceffone, a fare qualche fuga, e forse a macchiarsi di qualche tradimento. Prendiamo anche il caso dei bambini: se non si accettano, mai si sbaglierà nell’educarli. Invece se vengono accolti, gli sbagli educativi dei geni­tori saranno pressoché quotidiani!

Chi concepisce la vita come una palestra per diventare migliore, forse ha sbagliato a nascere su questa terra. Infatti tutti nasciamo in­nocenti e moriamo peccatori, bisognosi del perdono di Dio, degli uo­mini e delle cose. Poni a te stesso questa domanda: se tu, praticando lo zazen e frequentando l’eucaristia, col passare degli anni, anziché avvicinarti a essere quella persona che dà soddisfazione a te e agli al­tri, restassi così come sei coi tuoi difetti, o forse anche peggiorando, cesseresti di fare zazen e di celebrare l’eucaristia? Da questa risposta puoi comprendere se tu fai il cammino religioso per ottenere un po­sto, oppure se lo fai come espressione del tuo profondo essere. Da qui si comprende se tu ami incondizionatamente, o se ami a condi­zione di un posto da raggiungere. Da qui si conosce se sei uno che serve, oppure uno che servendo cerca di raggiungere qualcosa per sé. Da qui comprendi se nel fratello bisognoso a cui offri il tuo servi­zio tu vedi uno strumento a tuo uso e consumo spirituale, oppure se in lui incontri Dio, e in Dio muori e risorgi.

Gesù, grande maestro, non ci sta a patteggiare con l’egoismo dei due discepoli, larvato sotto motivazioni spirituali e di affetto cri­stiano (affetto verso Cristo). Chiede loro: «Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui sono battezzato?». Se sì, il posto in paradiso è illusione egoica che svanisce. Essere discepolo di Cristo non significa, tramite Cristo, raggiungere un posto in paradiso; ma partecipare della sua stessa vocazione a morire e risorgere. La voca­zione cristiana non è guadagnare Cristo e i suoi favori, ma essere Cristo: la sua croce e la sua risurrezione nell’amore. I difetti, che col passare degli anni crescono anziché diminuire, sono una preziosa compagnia che ci tiene umili. Questo non diminuisce per nulla il va­lore dello sforzo che dobbiamo fare per migliorare noi stessi, quando però crediamo nella fede che migliorare è un’altra cosa dalla propria aspettativa di volere il primo posto vicino a Gesù! Questo è lo zazen: mollare anche i propri raggiungimenti spiri­tuali! Questo è l’eucaristia: morire e risorgere.

p.Luciano

* Così grandi da servire

Letto con gli occhi di chi assimila l’insegnamento e la pratica del buddismo Zen, il Vangelo di oggi è una descrizione bellissima del rapporto fra maestro e discepolo. È questo uno dei temi sottintesi in tutti i koan, che si presentano molto spesso nella forma di dialogo fra il maestro e il discepolo.

Diciamo che tratta del rapporto fra maestro e discepolo: alla luce di questo rapporto, non si deve interpretare come se Giacomo e Giovanni abbiano fatto qualche cosa di sconveniente, liquidando l’e­pisodio come l’esempio di una superbia dei discepoli Giacomo e Giovanni, che Gesù stigmatizza con un invito all’umiltà. Giacomo e Giovanni fanno ciò che ogni discepolo fa e deve fare, incalzando il maestro fin là dove neppure lui può andare oltre. Incalzano Gesù, spinti dalla loro stessa ricerca in quella direzione. Gesù a sua volta li incalza: «Voi non sapete ciò che domandate». È importante non sa­pere ciò che si domanda. È importante sapere di non sapere e perciòdomandare. Ma per essere legittimati a domandare, perché la do­manda sia espressione di una condizione di vero ascolto e non solo una curiosità o una malizia, bisogna essere sullo stesso piano della persona cui si domanda, in sintonia con lei. Per questo Gesù sonda la loro disponibilità: «Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il batte­simo con cui io sono battezzato?». La risposta è immediata e senza dubbi: «Lo possiamo». Gesù lo riconosce e infatti non appare sde­gnato per la loro richiesta: semplicemente c’è qualcosa di più grande che avvolge la scena e dà senso al tutto. Gesù dice: Voi sapete di dare tutto per seguirmi, e che mi seguirete fino alla fine, alla morte e oltre; e volete sapere anche dove vi porterà questa via; ma questo nessuno lo può sapere anticipatamente. Non sta a me concederlo: il rapporto fra il maestro e il discepolo non è un rapporto utilitaristico, per cui alla fine il discepolo ottiene il premio dal maestro. Maestro e discepolo sono sullo stesso piano, sull’identica via, ciascuno svol­gendo il servizio che gli compete. Gli altri dieci discepoli che si indignano con Giacomo e Giovanni non sono i dieci umili di fronte ai due superbi. Ognuno di loro, in fondo, vorrebbe sedere al suo fianco: e questo non è sbagliato, per­ché ogni discepolo deve voler sedere al fianco di Gesù; sbagliato èpensare che se siedi tu al suo fianco, togli il posto a me. Sbagliato èindignarsi, perché vuoI dire non comprendere che nessuno può pren­dere il posto di un altro, nella gloria di Cristo. Inoltre, indignandosi, i dieci dimostrano di commettere un altro errore di prospettiva, che consiste nel pensare che ci siano posti migliori di altri, nella gloria di Cristo. Ma la gloria di Cristo è il luogo che balza al di là della con­traddizione: in quel posto ogni posto è il posto migliore, e ognuno ha il posto che è proprio il suo posto e non potrebbe essere altrimenti.

La spiegazione finale di Gesù scorre poi piana, come un fiume giunto in pianura dopo balzi scroscianti fra le rocce. Non è certo un invito a un’umiltà arte fatta e calcolata. Anzi, è un invito a voler es­sere grande, a voler essere il primo. Chi non vuole essere grande, chi non vuole essere il primo, non è un vero discepolo, è uno che pensa ancora a se stesso. Chi vuole farsi servo per diventare il primo, per essere grande, è un piccolo ipocrita che pensa solo a se stesso. Chi vuole essere grande si farà servitore non perché servendo si diventa grandi, ma perché chi davvero serve, davvero è grande. Non si di­venta grandi per farsi servire; non si serve per diventare grandi: ma si deve aspirare a diventare grandi per poter servire e poi, natural­mente, passare oltre.

jiso

* Nel bisogno i veri amici

Questo passo del Vangelo fa riflettere sul valore che diamo co­munemente ad alcune categorie di persone. In passato grandi mi sembravano le persone ammirate, particolarmente belle o di suc­cesso, colte o brillanti nella conversazione. Col passare del tempo apprezzo e stimo sempre di più un altro genere di persone: quelle su cui si può contare nei momenti di bisogno, quelle che sanno ascol­tare gli altri e portare conforto, quelle che sanno tacere, ma ti riman­gono accanto, quelle buone. Queste persone mi sembrano grandi.

Un maestro di meditazione Vipassanal durante un ritiro disse qualcosa come: il nostro vero problema è che non siamo abbastanza buoni, e questa semplice frase ebbe il potere di sciogliere un po’ il mio cuore indurito, dolorante, perduto in pensieri complicati tanto da non avere l’energia di guardarsi attorno e di vedere gli altri.

Spesso accade che le persone di successo siano infelici e prigio­niere del loro fascino e non sappiano godere di uno dei beni più pre­ziosi che ci è dato di sperimentare in questa vita: l’amicizia. Ed è cosìliberante sentire amicizia per una persona che ci piace anziché invi­diarla; ci rende a nostra volta più ricchi dentro e col cuore leggero dell’infanzia. I veri amici sono spesso persone poco appariscenti e nascoste, ma che sanno essere presenti quando è necessario.

Inoltre con gli anni si sta modificando per me anche la categoria di bellezza. Sempre di più mi sembrano belle proprio le persone che hanno un cuore gentile, e a volte per saper vedere questo bisogna spogliare la nostra mente di luoghi comuni e aspettative di compor­tamento.

Il Vangelo dell’episodio dei due fratelli che chiedono il posto mi­gliore per sé ha dato a Gesù l’occasione giusta per annunciare quanto sia regale il mettersi a servire: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di loro il potere. Fra voi però non è così». Dove si corre per preva­lere sugli altri non cresce l’amicizia; ma dove la vita di ogni giorno èl’offerta di piccoli e grandi servizi per aiutarsi l’un l’altro, nella fami­glia, sul lavoro, nella società, nel terreno di quei rapporti mette ra­dici la vera amicizia. E i veri amici sono un balsamo nella fatica di vivere.

(G.L.)

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