Sab 11 Nov 2006 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

Donare se stessi

Diceva loro mentre insegnava: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave».
E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel te­soro più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

* Il superfluo e tutta la propria vita

Il comportamento degli scribi è la tentazione sempre presente nella vita di ogni uomo. Oggi tale comportamento sembra avere ri­cevuto il riconoscimento di cosa buona, di buon senso comune, di cultura diffusa ed elogiata. È infatti senso comune che quando un credente fa un’offerta alla Chiesa o all’istituzione religiosa a cui ap­partiene, il sacerdote o il monaco che la riceve si affretti a pubblicare sul giornale o a scrivere all’ingresso dell’edificio sacro il nome del­l’offerente con la cifra della somma offerta. Spesso questa è anche l’aspettativa di chi ha offerto. Nella lista dei benefattori il primo po­sto è riservato a chi ha offerto di più. Il primo posto nelle cose rivela quale sia il primo comandamento a cui si obbedisce.

Noi giudichiamo il comportamento di tali uomini peccaminoso; se cristiani, diciamo: è lontano dallo spirito del Vangelo della gra­tuità di Cristo; se buddisti, diciamo: è contro l’insegnamento buddi­sta del non attaccamento. Mentre giudichiamo severamente gli altri, ciascuno di noi in mille altri modi è tentato di comportarsi come lo scriba. Siamo sotto l’influsso di questa tentazione ogni volta che con­sideriamo il significato della vita e del cammino religioso in termini di quantità appariscente, ogni volta che la voglia di farci vedere e di farei stimare diventa il movente delle nostre pratiche religiose e delle nostre scelte.

«Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino». Quando mi assale il dubbio su Dio e devo rendere ra­gione a me stesso del perché credo in Dio, nonostante Dio sia oltre la visibilità dei miei occhi e la comprensione della mia mente, apro il Vangelo e leggo l’episodio della vedova che offre i due spiccioli. Credo in Dio anche quando si affaccia il dubbio, perché quanto inse­gna questo episodio è più forte di ogni dubbio. Nel vortice delle ap­parenze e dei tornaconti che tutto condizionano esiste nel cuore di ogni uomo un punto profondo che comunica con la Verità, che li­bera l’uomo dalle maglie dell’apparenza e lo mette in comunica­zione e in comunione con la solidità del Vero. Nel vortice dell’incon­sistenza e dell’impermanenza c’è un’àncora che fa presa nella gioia dell’essere e libera l’uomo dalla tristezza cronica dell’illusorio. Gra­zie a questa esperienza l’imbarcazione della mia vita fluttua nel mare agitato, ma non perde la speranza perché l’àncora che pesca nel profondo le permette di fluttuare libera insieme con le onde. Credere in Dio è credere che l’impermanenza stessa del proprio esi­stere è manifestazione di qualcosa che è permanente. Non per con­trasto, ma per comunione. L’apporto del buddismo alla fede propria del cristiano è la comprensione che l’altro permanente, Dio, in cui è ancorata l’impermanenza della vita, non consiste in un altro mondo, ma è l’essenza più profonda di questo mondo.

L’uomo raziocinante tende a cercare Dio al di là della marea im­permanente della realtà attuale. L’uomo contemplativo crede in Dio contemplandolo proprio dentro la realtà impermanente della vita. Per il primo l’impermanenza e l’inconsistenza delle cose rimandano a Dio; per il secondo sono proprio l’impermanenza e l’inconsistenza delle cose a narrare e a manifestare Dio.

«Tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua po­vertà, vi ha messo tutto quello che aveva». Nello scarto che si origina nel cuore di chi considera questo mondo imperfetto e il mondo di Dio perfetto, straripa il superfluo, perché tutte le cose sono superflue, sono qualcosa d’altro dal mondo vero. Così il superfluo ristagna. a piacimento dentro e fuori, dando il via alla corsa verso la ricchezza. La povera vedova non aveva nulla di superfluo, non distanziava que­sto mondo, la sua vita, dal mondo di Dio; non aveva scarto tra il suo agire e il suo essere. Ciò che differenzia lo scriba dalla vedova non è il semplice fatto che uno possedeva molto denaro e l’altra solo due spiccioli. Ma è che il denaro per il cuore dello scriba è il superfluo, per il cuore della vedova è tutta la sua vita.

p.Luciano

* Dare e rendere

Il Vangelo di oggi sembra la spiegazione più esauriente possibile di quello della scorsa domenica. Se vogliamo sapere cosa vuol dire amare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima e con tutta la mente e con tutta l’energia vitale ora lo sappiamo: la povera vedova oggi ce lo sta mostrando.

Subito dopo l’incontro con lo scriba che ha ben compreso lo spi­rito della Scrittura, troviamo quest’invettiva contro gli scribi in ge­nere. Il singolo individuo è valorizzato per quello che è, indipenden­temente dalla categoria cui appartiene: il gruppo, la congrega, èpresa di mira come il luogo in cui l’individuo si nasconde, si fa un alibi nell’appartenere a questo o quel gruppo e ne incarna i difetti. Gesù non attacca ogni singolo scriba, attacca gli scribi come gruppo. Il gruppo, in questo caso, è il luogo dove l’individuo si snatura e si deresponsabilizza, e assume atteggiamenti che non nascono dalla sua vera identità ma dalla sua identificazione come membro del gruppo. Così gli scribi sono gli studiosi, coloro che sanno per defini­zione, e dunque ostentano la propria posizione: non perché davvero sappiano e abbiano qualcosa da dire, ma solo in quanto scribi. Com’è attuale! Quanti pubblici ufficiali, quanti professionisti, quanti insegnanti, quanti religiosi, quanti medici, quanti militari al giorno d’oggi si nascondono dentro la veste che indossano e se ne fanno belli! Non usano il ruolo come stimolo a un comportamento rigoroso e sincero, adeguato alla funzione che svolgono, ma come strumento di privilegio, come paravento per nascondere la propria vuotezza. Pretendono in funzione del ruolo che ricoprono, come se ruolo non volesse dire servizio.

Gesù si pone a osservare la gente mentre getta il denaro nella cassa delle elemosine: davvero un punto di osservazione ideale. Tanti anni fa sono stato in India, dove milioni di persone vivono di elemosine. Ho visto molti episodi. Ricordo in particolare le scalinate di Benares, che portano al Gange. Lì vivono, giorno e notte, migliaia di persone. Ogni mattina arrivano gli indiani ricchi: portano un sac­chetto di monete in una mano e con l’altra le gettano per le scale, come si getta il mangime alle galline o i semi nel campo. Non guar­dano neppure dove vanno a cadere: i poveri (ma non tutti) si affan­nano a cercare di raccoglierne il più possibile. Quando sento il brano del Vangelo di oggi, mi tornano in mente quelle tante scene in cui il superfluo è dato solo per l’autocompiacimento di dare. Anche que­sta seconda parte del Vangelo è del tutto attuale. Oggi a nessuno o quasi viene in mente di mettere in dubbio il primato dell’economia. Anche le persone religiose sono sotto l’influenza di questa mentalità economica, per cui ci vuole sempre un margine di sicurezza, qual­siasi cosa si faccia. Gesù ci ricorda che la lira di chi ha una lira sola vale immensamente di più del miliardo di chi ha due miliardi. Ma poniamo il caso, a titolo di esempio, di essere un’istituzione reli­giosa, una comunità o una congregazione, che riceve un’offerta, di cui magari ha anche bisogno: daremmo più valore alle mille lire date da chi non ha che quelle, o al milione di chi ne ha tanti? Se imparas­simo anche a ricevere con mentalità non economica ma religiosa, al­lora sì che non ci sarebbe differenza fra chi dà e chi riceve, ma un’u­nica azione per il bene di entrambi. Narrano una storia di Budda: un giorno che faceva la questua (la regola era di non accettare che cibo e di mangiare solo ciò che era stato messo nella ciotola) lo vide un bambino che stava giocando con la sabbia. Il bimbo fu colpito da quel monaco e volle dargli ciò che di più prezioso aveva: riempì così di sabbia la ciotola di Budda, che per quel giorno non ricevette altro. Ma l’eco di quell’elemosina sincera giunge ancora ai nostri orecchi ed è elemosina anche per noi: avesse ricevuto un gioiello di valore nessuno più lo ricorderebbe.

Se il dare è basato sull’essere, allora non c’è alcuna divisione fra l’essere e l’avere: la vedova ha dato più di tutti gli altri messi insieme perché ha dato se stessa. Tutti gli altri hanno dato incommensurabil­mente di meno (anche se hanno dato enormemente di più in termini economici) perché hanno dato basandosi sull’avere, calcolando cioè fin dove potevano arrivare: non sono escluse la generosità e la rinun­cia, ma si tratta di un altro piano. La povera vedova dà perché sa di non avere nulla di suo, solo il proprio essere: è povera di spirito prima che di averi. Tutti gli altri danno perché pensano di avere qualcosa di loro proprio e, dando, pensano di fare il sacrificio di pri­varsene. Ma il vero sacrificio non è dare, è restituire, sapendo di non avere nulla di proprio. Gesù stava guardando, guardava l’atteggiamento dietro ai gesti. Non guardava alle somme date, guardava al modo di dare delle persone. Se avesse visto una vedova che dava i suoi pochi soldi con un atteggiamento di chi sta facendo chissà che cosa, non ce lo sarebbe venuto a dire. Ha visto certamente un atteg­giamento schivo, naturale, di chi fa una cosa dovuta, di cui è impossi­bile vantarsi. L’atteggiamento di chi restituisce.

jiso

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