Sab 13 Gen 2007 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

Non hanno più Vino

Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». E Gesù rispose: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora». La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà».

Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei giudei, con­tenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora at­tingete e portatene al maestro di tavolm>. Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano at­tinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu in­vece hai conservato fino ad ora il vino buono». Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi di­scepoli credettero in lui.

* Il pensiero divino si fa carne: l’acqua e il vino

L’acqua mutata in vino alle nozze di Cana è l’annuncio evange­lico della grazia su grazia riversata nella festa degli uomini. Ciò che serviva per le rigide purificazioni rituali diventa la dolce bevanda che rallegra il convivio dell’esistenza, fino alla fine. L’acqua lustrai e richiama la moralità; il vino evoca la gioia. Una vita morale senza la gioia non è autentica religione; assolutamente non è la via della lieta notizia, non è il Vangelo!

La religione non si ferma alla morale, ma va oltre ed entra nella gioia! Non il moralmente giusto, che rimane freddo e altero, ma il peccatore che si converte è il testimone del Vangelo. L’acqua è cam­biata in un ottimo vino quando oramai il banchetto volgeva al ter­mine e tutti erano alquanto brilli. Si direbbe che non c’era alcun se­rio bisogno di un miracolo. Chiunque direbbe che il cambiamento dell’acqua in buon vino alle nozze di Cana fu un intervento di grazia non necessario, quasi sprecato! Quale seria necessità di mutare l’ac­qua in vino quando i commensali erano già brilli? Mentre il mondo rigurgita di grandi sofferenze in cui Dio, anche se invocato, non in­terviene e rimane impassibile!

Noi tendiamo a intendere la religione come uno scudo contro il male. Certamente è anche questo; anzi, in quei momenti è soprat­tutto questo! «Padre nostro […] liberaci dal male». Tuttavia la reli­gione non si esaurisce nella liberazione dal male, nel purificare! La religione non è solo acqua lustrale; è anche vino che diffonde gusto di vivere. È grazia su grazia riversata sulla nostra esistenza. La reli­gione è profumo dell’esistenza, anche nei momenti di sofferenza. Impariamo da Francesco d’Assisi, dai mistici di ogni terra, e dai po­poli dell’oriente. Ce lo annuncia con parole evidentissime il Vangelo secondo Giovanni: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,16-17). Il Van­gelo non consiste nell’ennesima pubblicazione dei dieci comanda­menti e della legge morale per non andare all’inferno; ma è appari­zione della grazia e della verità, è paradiso già in atto. Sia nei mo­menti di gioia, come in quelli di dolore. Se con questa comprensione della religione accostiamo il racconto dell’acqua cambiata in vino alle nozze di Cana, l’episodio ci riverbera nel cuore come autentico Vangelo.

La vera religione è far fiorire la gioia dell’esistere, anche quando fa visita il dolore. Il dolore rimane dolore, ma il sottofondo della fede sostiene la memoria e l’attesa della gioia. La vera reli­gione è delicatezza sociale, è preoccupazione che nasce dalla finezza umana. È importante soffermarci sul valore religioso dei rapporti so­ciali, perché non poche volte le persone che praticano la religione ne sono carenti. Maria, madre di Gesù, al banchetto di Cana affrontò la situazione in modo delicato e intraprendente. La persona religiosa si accorge dei problemi, li individua e sa promuovere una politica so­ciale di prevenzione e di cura. Alla persona religiosa non costa il fatto di dover vivere nel bel mezzo della realtà. Se i rapporti sociali pesano, il loro peso è salvifico, perché libera dalla tendenza a chiu­derci nell’individualismo spirituale.

Sono proprio il sapore e il profumo che sprigionano nel suo rap­portarsi con gli altri che contraddistinguono l’uomo religioso da quello che si dedica al sociale senza avere il cuore religioso. Il se­condo si prodiga per la società attingendo le motivazioni del suo agire semplicemente dalla lettura sociologica delle situazioni e mira al raggiungimento di un risultato ovviamente buono. Misura il va­lore del suo intervento sociale dal risultato raggiunto. Ma chi si de­dica al sociale con il cuore religioso attinge le sue motivazioni dalla vena profonda da cui ha origine la realtà sociale. Può darsi che il so­ciologo, davanti a certe difficoltà insormontabili, si arrenda alle forze avverse perché il suo occhio non scorge più alcuna speranza al­l’orizzonte; l’uomo religioso invece, come dice Paolo, spera anche «sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18). Si muove in virtù di una convinzione che non oscilla ai venti della storia e della valutazione dei risultati. Perciò la sua solidarietà con il divenire storico è inespu­gnabile, anche se sul momento non può fare nulla per mutare la si­tuazione. Gesù, all’inizio della sua missione pubblica, volentieri ac­cettò di partecipare alle nozze dei due giovani di Cana, conduce n­dovi anche gli apostoli. Erano festeggiamenti che duravano, secondo l’usanza, anche più giornate. Seguire la via religiosa, per Gesù, è, sì, abbandonare il mondo, ma non il rapporto sociale. C’è un abbando­nare il mondo che matura dedizione agli impegni sociali: è la via reli­giosa. Ma c’è anche l’abbandonarlo per mediocrità e viltà: è la via mondana. L’abbandono falso incupisce; quello vero profuma di soa­vità la vita. I due giovani sposi di Cana nella vita si imbatteranno come tutti nelle difficoltà. Saranno tentati dallo scoraggiamento. Al­lora, alla loro memoria si affaccerà il ricordo della delicatezza rice­vuta, a sostenerli. Come il concepimento di un bambino è ricco della gioia dell’amore, di quell’amore che poi sosterrà nell’ardua impresa dell’ educazione.

L’albero produce i frutti; ma contemporaneamente anche una miriade di foglie e di fiori, destinati a cadere e appassire. Anche ciò che noi riteniamo secondario o accessorio è costruito dall’albero im­piegandovi tutte le sue energie; al punto che dal vigore di una foglia si può dedurre quello delle radici. In natura anche ciò che vive un solo giorno è dotato di bellezza e di dignità. La natura è tremenda­mente austera; tuttavia, anche negli inverni più rigidi o nelle estati più afose, quante delicatezze elargisce a tutti i viventi! Lo stelo di frumento che riposa sotto la coltre di neve o le gocce di rugiada al­l’alba di un giorno di mezza estate! In natura austerità e delicatezza sono inseparabili. Non può gustare il Vangelo, la lieta notizia di esi­stere, chi non cura la bellezza e le delicate sfumature della vita. Mai congiungerà le mani per adorare il Pensiero divino nelle cose.

Il Vangelo delle nozze di Cana è per noi l’insegnamento pre­zioso a non trascurare mai le finezze del vivere sociale e comunita­rio, le attenzioni che prevengono e le premure che evitano ai fratelli e agli amici i dispiaceri e i disagi. È chi nutre il sogno di un mondo solidale, di un mondo profumato di delicatezza che nell’intimo della sua convinzione vive l’attesa del Cristo. Il Cristo è la divina unzione con l’olio che snellisce, alimenta, sana, illumina, profuma, fortifica la vita. Il Pensiero divino pone la sua tenda sulla terra, solidale con l’uomo e con tutte le creature. Ed è festa!

p.Luciano

* Le giare per le abluzioni

Il Vangelo delle nozze di Cana è così ricco di spunti e di signifi­cati che ci vorrebbe un libro intero per trattarlo come si deve. È così ricco da apparire addirittura ridondante a chi si accinga a commen­tarlo. Cogliamo solo alcuni spunti.

Innanzitutto lo scenario. È quello del convito, luogo prediletto del Vangelo, e ci sono tutti: Gesù, i discepoli, persino Maria, che qui pronuncia le uniche parole sue riportate dai Vangeli nel periodo della vita adulta del figlio, durante il tempo della sua predicazione. Ci sono i festeggiati e gli invitati, e gli addetti al banchetto, il maestro di tavola e i servi. Ci siamo tutti, a Cana, ciascuno con il suo ruolo. Ma, sul più bello, viene a mancare il vino. Si sente dire spesso che il cristianesimo è una religione poco allegra, in cui prevale il senso del dramma e del dolore, dove non vi è mai un personaggio che ride o sorride, a cominciare dallo stesso Gesù. C’è del vero in questo, ma non è certo tutta la verità. In questo caso, per esempio, il fatto che manchi il vino e che tutti se ne preoccupino, Maria e Gesù per primi, indica che l’allegra convivialità è tenuta in gran conto. Gesù non risponde: «Abbiamo già bevuto abbastanza». Se inizialmente si schermisce ciò non dipende dal fatto che ritiene irrilevante il pro­blema della mancanza di vino durante la festa di nozze. Il vino, in questo contesto, è ciò che aiuta a essere nello stato d’animo giusto per la festa. Uno stato d’animo gioioso, allegro, tutt’altro che cupo. Cupe e fredde e scostanti sono semmai quelle sei giare di pietra piene d’acqua.

Che ironia raffinata c’è nel gesto di Gesù di scegliere proprio quei simboli di pietra della freddezza della legge rituale per operare il segno della trasformazione: dall’acqua incolore, inodore, insapore, inespressiva, al vino intenso, spumeggiante, inebriante, pieno! Che ricchezza di vita, nel vedere come la stessa cosa, l’acqua, può indi­carci la realtà della trasparenza, della pulizia, della freschezza, del­l’origine della vita, oppure la freddezza, l’insipienza, la mancanza di carattere proprio, a seconda della situazione, del momento vissuto nel suo insieme e nei particolari. Il vero segno, il vero miracolo è proprio nel mostrarci questa dinamicità della vita, questa assenza di fissità, di staticità opprimente per cui ogni cosa avrebbe significati univoci e prestabiliti, ripetitivi e scontati: l’acqua sempre limpida, pura e bella; il vino sempre ubriachevole, ingannatore e malandrino.

Ma l’operato di Gesù ci dice che così non è: la purezza di ogni cosa sta nel suo essere se stessa, nell’occupare il proprio posto e rea­lizzarsi, dando in tal modo piena vitalità alla scena della vita di cui èparte: vino quando ci vuole il vino, acqua quando ci vuole l’acqua. Il segno che Gesù ci regala è quello di scompaginare le idee precon­cette, di farci capire che la vita zampilla là dove trasformiamo i no­stri parametri di algida purificazione nell’adesione gioiosa all’impre­vedibile gradazione delle circostanze della vita.

Trovo questo Vangelo pervaso di buon umore, di vero e proprio umorismo, uno sgambetto al passo rigido e legnoso dei moralisti. I particolari che fanno sbocciare il sorriso abbondano: Maria, che nep­pure prende in considerazione la protesta iniziale di Gesù e prose­gue imperterrita per la sua strada; Gesù, che opera con l’aria di voler fare uno scherzo; il maestro di tavola, che non si accorge di nulla mentre i servi sono al corrente e hanno capito tutto. Un primo indi­zio di qualcosa che capiterà tantissime altre volte durante la storia della predicazione di Gesù: chi è davvero vicino alle cose, chi le fa con le sue mani, comprende subito cosa sta avvenendo; chi invece è preposto, sta là in alto a dirigere con senso di superiorità e distacco, non capisce niente di quanto si svolge sotto i suoi occhi.

Questo inizio dei segni fece Gesù: così dice il testo greco del Vangelo, che non parla di miracolo ma di segno. Semeion, infatti, vuoI dire segno, segnale, indizio. Il miracolo è un fatto portentoso: può affascinare, ma lo sentiamo tanto lontano da noi, dalle nostre reali possibilità. Il segno è un indice, un dito puntato che ci invita a guardare: non al dito stesso, ma alla realtà cui indirizza. Questo se­gno iniziale che Gesù ci regala, grazie alla caparbietà di sua madre, ci indica una realtà allegra, sorridente e graziosa, che non dovremmo scordare e lasciar incupire: percorrere la via religiosa non vuoI dire curvare le spalle e avanzare pesanti con volto mesto sotto il peso di chissà quale fardello.

«Portare a compimento questo modo di vivere, poiché è rendere se stessi veramente liberi, è gioia, è gioco»[1]

[1] DOGHEN, Il cammino religioso, 25.

jiso

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