Sab 3 Mar 2007 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

Lo splendore sulla montagna

«Circa otto giorni dopo questi discorsi, prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quel che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all’entrare in quella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo». Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.»

* Il silenzio messianico

«Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante». L’episodio della trasfigurazione si colloca durante il viaggio di Gesù a Gerusalemme, dove segretamente i grandi sacerdoti del tempio ormai avevano concertato di farlo morire. È quindi l’ultimo viaggio di Gesù attraverso la sua terra e i suoi monti, alla fine della sua esistenza terrena. Fine dovuta all’imminente condanna da parte dell’autorità sia religiosa che politica, ma anche per l’abbandono dei suoi discepoli. Gesù, perfettamente uomo, avvertiva in modo perfetto tutto ciò che tale situazione avrebbe significato per la sua umanità.

Sul monte si trasfigurò: ossia il suo corpo cominciò a emettere splendore; e, come estensione del suo corpo, anche il corpo dei suoi discepoli, le sue e loro vesti e l’ambiente attorno risplendevano. Perfino la polvere posata sui vestiti, come la polvere del sentiero, cominciò a risplendere. Le vesti e la natura sono l’estensione del corpo umano: quando l’uomo nel suo corpo esplica l’egoismo, tutta la natura ne soffre; quando pratica l’amore, tutta la natura ne gioisce.

Anche la storia si trasfigurò nel corpo del Signore trasfigurato. Gli antichi profeti apparvero per rendergli testimonianza. Mosè il condottiero e legislatore, colui che gli ebrei veneravano come il simbolo di ogni salda istituzione politica e religiosa basata sulla rigida osservanza delle leggi, era inchinato verso Cristo, colui che proprio l’istituzione politica e quella religiosa, di comune accordo, stavano per condannare a morte. Poi Elia, il violento massacratore di quattrocento sacerdoti pagani, colui che i pii ebrei aspettavano come l’araldo del Messia, al punto che qualcuno aveva pensato che Gesù altro non fosse che Elia reincarnato. Elia era lì, inchinato verso il Cristo che i sacerdoti del tempio a giorni avrebbero fatto uccidere. Mosè ed Elia erano trasfigurati e in loro tutto l’Antico Testamento con le sue imprecazioni contro i nemici e i pagani era trasfigurato nel Nuovo Testamento del perdono.

«Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo». Il Padre, che «nessuno mai ha visto» (Gv 4,12), fece udire la sua voce per proclamare che la vocazione di Gesù a portare la croce e a morire è prediletta. Quando il giorno della croce venne, Pietro, Giacomo e Giovanni non si ricordarono della voce udita e fuggirono. Era quindi una voce che non basta ascoltare una volta per sempre, ma che continuamente deve essere riascoltata, perché la tentazione a non riconoscere la manifestazione di Dio nella croce è continua e persistente. Con le sue due lettere Pietro conferma nella fede i primi cristiani provati sia dalla persecuzione politica di Nerone, sia dalla continua difficoltà che la perseveranza nella fede richiedeva giorno dopo giorno. Pietro rievoca la voce sentita sul monte della trasfigurazione, voce che finalmente era giunto a comprendere fino in fondo: «Questa voce noi . l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 2,17-18).

Percorrendo la strada della vita e portando la croce che la vita ci affida, il Vangelo udito mille volte comincia a splendere in noi e attorno a noi. La vita, la fatica, la difficoltà dei rapporti sociali, il cammino, l’invecchiamento, la morte: sono tutti avvenimenti amici del nostro splendore. Una perla ha fin dall’inizio la proprietà di risplendere, ma comincia a riflettere la luce soltanto dopo che è stata levigata. Un giorno giungeremo a vedere lo splendore del pensiero eterno del Padre su di noi. Continuiamo quindi a levigare fino all’ultimo giorno.

«Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono ad alcuno ciò che avevano visto». I tre discepoli non narrano a nessuno quanto avevano sperimentato. Secondo la versione di Matteo e di Marco, è lo stesso Gesù che ordina il silenzio, «finché il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti» (Mt 17,9). Questo comando a tacere, che Gesù ripeteva spesso dopo ogni avvenimento che aveva rivelato la sua gloria, è detto silenzio messianico. È il silenzio richiesto affinché nessuno mercifichi l’incontro con Dio per la sua vanagloria, ma lo conservi puro come gli è stato dato dal Padre. Spesso noi cristiani mettiamo sul mercato i doni di Dio ricevuti; noi diciamo che è per la sua gloria, ma di fatto è per la nostra vanagloria. All’opera di Dio conviene prima il silenzio e poi la parola. Il momento giusto di parlare è quando, dicendo le meraviglie di Dio, non solleviamo più la polvere della nostra vanità. Allora possiamo e dobbiamo gridare, come Maria nel Magnificat. Quel momento arriva soltanto dopo aver vissuto il silenzio con religioso rispetto e in operosa attesa.

p.Luciano

* La luce della luna e l’ombra degli alberi

N

on è davvero nostra intenzione proporre un accostamento fra aspetti dell’insegnamento buddista e di quello cristiano con uno spirito comparativo o rivendicativo: con l’intento di stabilire, nel primo caso, la superiorità di un insegnamento sull’altre, o al fine di reclamare nel secondo caso: «questo ce l’abbiamo anche noi!». Per evitare siffatte tentazioni e fraintendimenti; evitiamo il più possibile di accostare ciò che assomiglia: non ci interessa stabilire concordanze per dimostrare una tesi a priori, ma far parlare entrambe le visioni religiose all’unico cuore di chi scrive o legge.

Nel caso del Vangelo odierno, però, mi viene davvero naturale fare un accostamento. La trasfigurazione di Gesù mi richiama alla. mente un analogo episodio buddista con tale spontaneità che non riesco a sottrarmi: anche perché è da quell’episodio che ha origine la citazione buddista proposta nel Vangelo di domenica scorsa e penso di cogliere l’occasione per offrire al lettore una visione più completa. L’episodio di cui si tratta narra di una sorta di trasfigurazione di un antico partiarca indiano, Nagarjuna, vissuto ai tempi di Gesù e molto venerato da tutte le correnti religiose del buddismo. Lo riferisco così come è descritto da Doghen nel testo Bussho [La natura autentica], che fa parte dello Shoboghenzo, e in cui si affronta il tema, di fondamentale importanza non solo per un buddista, del modo giusto di intendere la natura di Budda (natura autentica) che è la vera natura di ogni cosa.

«Il quattordicesimo Patriarca Nagarjuna […] nato nella regione occidentale dell’India, si trasferisce nella regione meridionale. Molte persone di questa regione credevano nella felicità mondana. Il venerato perciò espone la meravigliosa legge. Coloro che ascoltano si dicono l’un l’altro così: “Per l’uomo avere la felicità mondana è la prima cosa al mondo. Chi, invece, per quanto con ardore parli della natura autentica, ha mai potuto vederla?”.

Il venerato dice: “Tu, se desideri vedere la natura autentica, anzitutto devi togliere di mezzo lo spadroneggiare dell’io“. Quelli dicono: “La natura autentica è grande, è piccola?“. Il venerato dice: “La natura autentica non è né grande né piccolo, né vasto né angusto, non è né fortuna né ricompensa, la natura autentica non muore, non nasce“.

Quelli, udendo parole che vincono i loro ragionamenti, davvero cominciano a convertire il cuore. Il venerato poi, sedutosi, manifesta l’autenticità del suo corpo, simile al cerchio della luna piena. Tutti i convenuti odono solo la voce che proclama la legge, senza vedere la sembianza del maestro.

Fra i convenuti c’è il nobile Kanadaiba, che dice loro: “Riuscite o no a cogliere cos’è il suo aspetto?“. Rispondono: “Ora i nostri occhi ancora non hanno alcunché da vedere, le nostre orecchie alcunché da udire, il nostro cuore non ha nulla da investigare, il nostro corpo non ha un posto da abitare“. Kanadaiba dice: “Proprio questo è quel venerato, che incarnando l’aspetto della natura autentica lo mostra a noi. Come lo possiamo sapere? Dopo tutto, la profonda pace che è oltre ogni forma si manifesta come forma della luna piena. La giustezza della natura autentica traspare dappertutto in modo chiaro“.

Come finisce di parlare, proprio allora l’aura si cela. Di nuovo seduto sul cuscino recita questo verso: “Incarnando nel corpo la forma della rotonda luna, in questo modo manifesto il multiforme corpo autentico. Non ha forma questo annuncio, non ha suono né colore questa funzione [non corrisponde all’esperienza sensoriale]».

Quando qualcosa si mostra per quello che veramente è, mostra la sua natura di luce. Mostra la forma che è oltre le forme, perché i contorni non rappresentano un limite, una gabbia, ma nient’altro che la linea di demarcazione di un essere che comunica direttamente con l’essere e con ogni altro essere, come una sorgente di luce che è tale in quanto irradia ed esce da se stessa. Ogni tanto noi cogliamo, in un modo o nell’altro, che le cose in realtà stanno così, e che le forme che vediamo sono il vestito pesante e lento di una realtà leggera e veloce che non si fa intrappolare dai contorni. Questa visione o intuizione o anelito, ci allarga il cuore e ci fa respirare a pieni polmoni. Ma non dobbiamo per questo aver nostalgia della luce, O rinnegare e svalutare il mondo un po’ greve in cui viviamo. Non ci sono due mondi, uno vero e luminoso e l’altro illusorio e ombratile: la luce dipende dall’ombra così come l’ombra dipende dalla luce. Secondo un detto Zen «‘ombra degli alberi dipende dalla luce della luna», e questo non è ld slogan accattivante di un relativismo assoluto, ma il passaggio a portata di mano verso il riscatto e la salvezza. C’è ombra perché c’è la luce: questo mondo greve in cui viviamo, è lo stesso mondo di luce, così come si presenta nella condizione in cui ora ci troviamo: se non siamo in rapporto con questo, ora, se non crediamo alla sua esistenza, perdiamo pure. quell’altro. Consideriamo che Gesù, risorto, si presenta in carne e ossa, si fa toccare le ferite, mangia pesce arrostito con i suoi amici: non si presenta con un etereo corpo di luce. Conoscere la luce, e amarla, deve portare ad amare anche l’ombra, anche se pesa: altrimenti stiamo amando una luce che non illumina, che non esce da sé, come un buco nero.

jiso

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