Sab 31 Mar 2007 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

Vi invio in allegato l’intervento del gesuita belga André Fossion tenuto al convegno Europeo di Pastorale Zingara in Ungheria la settimana scorsa: “Evangelizzare in modo evangelico”.

Le sue riflessioni le ho trovate stimolanti per la loro attualità, utili non solo per chi opera nella realtà dei Rom/Sinti, penso che possono essere di aiuto anche in contesti diversi, sopratutto nel campo missionario.

Ciao a tutti e buona lettura,
Agostino (p.Agostino Rota Martir)

(questa pagina è anche diponibile in PDF Evangelizzare in modo evangelico)

  • EVANGELIZZARE IN MODO EVANGELICO

Cari amici, sono onorato d’essere stato invitato al vostro congresso e di poter prendere la parola . Il tema che mi é stato proposto di trattare con voi é quello dell’evangelizzazione in un mondo in profonda mutazione. Come evangelizzare in modo evangelico ? Questo sarà l’oggetto della mia esposizione.

Voi lo sapete, non conosco bene il mondo dei nomadi, la loro vita di fede, il loro modo di fare Chiesa o ancora le difficoltà che si incontrano, nel mondo come nella Chiesa, per creare dei legami e vivere in realazione con i « Gadjé »(i non zingari). Prima di venire qui, mi sono informato un po’ su questo mondo dei gitani. Sono stato aiutato in questo da Léon Tambour, da Padre René Bernard, et da Padre Dirk Leeman. Essi mi hanno chiarito soprattutto il fatto che le realazioni tra i nomadi e gadgé restano ancora molto difficili, viste le differenze culturali e soprattutto a causa del peso storico di esclusioni, diffidenze e pregiudizi che sussistono da una parte e dall’altra, tra le due sponde. Ho ascoltato e imparato molto su queste questioni.

Poiché non ho titolo per parlare sul mondo dei gitani e sui loro rapporti con i Gadjé, la mia proposta sull’evangelizzazione resterà generale. Riguarda la nostra società che, come tutti noi sappiamo e in profonda mutazione sul piano religioso e culturale. Non di meno, se la mia proposta é generale, spero che potrà aiutarvi a porre e chiarire le questioni che sono le vostre sul terreno della Pastorale in ambiente gitano. Per questo dopo ogni parte da me esposta elenchero’ un insieme di questioni specifiche che raggiungono le vostre preoccupazioni, a cui io non posso rispondere ma che voi potete cogliere approfondire o affinare se voi le ritenete pertinenti.

La mia esposizione sarà divisa in 3 parti.

  • In un primo tempo vorrei sottolineare quanto la nostra epoca é in una situazione di crisi profonda sul piano della trasmissione della fede ma anche, per il fatto stesso, della ricomposizione, dell’inizio, o del re-inizio della fede.
  • In un secondo punto definirei che cosa si puo’ intendere per una Pastorale di generazione in un tempo di crisi come il nostro.
  • Infine, in un terzo punto, faro’ l’elenco di alcune attitudini che favoriscano questa pastorale di generazione e danno cosi’ al Vangelo tutte le sue opportunità nel mondo d’oggi.

* 1) UN TEMPO DI CRISI : UN TEMPO PER COMINCIARE E PER RICOMINCIARE UN CAMMINO DI FEDE

Lo sappiamo, un mondo se ne và e un’altro arriva. Per forza di cose il cristianesimo stesso partecipa a questa trasformazione. Un certo cristianesimo é in crisi profonda, ma questo non é la fine della fede cristiana; questa é anche in ricostruzione, in riconfigurazione. Da questo punto di vista, siamo in una situazione « tra le due » non facile ma appassionante, tra cio’ che muore e cio’ che nasce.

In questo primo punto vorrei esplicitare questa situazione « tra le due ». Ripeto che la mia proposta sarà generale e riguarderà piu’ direttamente il mondo dei gadgé. Ma forse, potete capire la mia proposta domandandovi come si situano i gitani nella crisi, nel cambiamento socio-culturale e religioso del nostro tempo. Come questo cambiamento vi riguarda e vi coinvolge ?

1.1.Un tempo di rottura : crisi della trasmissione

Prima di tutto riconosciamo l’ampiezza della crisi che, sotto l’effetto della secolarizzazzione, tocca il cristianesimo e la sua trasmissione. Abbiamo conosciuto due tappe nella secolarizzazione.

* La prima tappa é la secolarizzazione della società. Questa secolarizzazione si é imposta in modo decisivo dalla fine del XVIII secolo con la rivoluzione democratica, affermazione dei diritti dell’uomo, lo sviluppo delle scienze e l’autonomia della ragione filosofica. In questa nuova società scaturita dalla modernità, la religione non svolge piu’, come nel passato un ruolo di fondo o di inquadramento. In altri termini, la società moderna si é emancipata dalla tutela religiosa e clericale. Tuttavia, la religione non sparisce, ma é rinviata a libero assenso dell’individuo in un universo diventato pluralista. Nel passato, nel periodo della cristianità nascere e diventare cristiani andavano di pari passo. La fede si trasmetteva con l’ambiente culturale; faceva parte di convinzioni comuni. La dottrina si trasmetteva sotto il regime di una triplice necessità : le verità da credere, i comandamenti da osservare, i sacramenti da ricevere. Al contrario con l’avvento della modernità, cio’ che la società trasmette, non é piu’ la fede ma la libertà religiosa del cittadino. D’altronde lo stesso cristianesimo ha contribuito a questa emancipazione della società dalla religione. E’ cosi’ che Marcel Gauchet parla del cristianesimo come della « la religione dell’uscita dalla religione1 »

* Ma oggi si assite a una seconda fase della secolarizzazione : non solo la secolarizzazione della vita pubblica, ma la secolarizzazione della stessa vita privata. Sono gli stessi individui che si allontanano dalle forme di cristianesimo ereditate, perché non soddisfano piu’ le loro aspirazioni, perché non hanno piu’ senso o sono diventate largamente incomprensibili. Oggi si assiste infatti a una presa di distanza massiccia degli individui di fonte alle istituzioni religiose, alle loro pratiche e alle loro credenze. Non é che spariscono le domande di senso o le aspirazioni spirituali anzi al contrario. Ma cio’ che regna é piuttosto la perplessità, « il fai da te delle credenze » dei cammini ogni volta singolari in un mondo complesso. In questo contesto, le rappresentazioni della fede cristiana che restano negli spiriti sono sovente frammentate, caotiche e parziali ; non permettono di renderla comprensibile o desiderabile ; talvolta addirittura la rendono odiosa. Da questo punto di vista, a fronte delle forme ereditate del cristianesimo assistiamo a una vera rottura di trasmissione.

I sintomi della crisi sono evidenti : diminuzione del numero dei praticanti, meno ragazzi al catechismo, crisi delle vocazioni sacerdotali, comunità che invecchiano ecc. Tutti noi abbiamo nelle nostre proprie famiglie delle persone che poco a poco, sono diventate estranee alla fede cristiana , perlomeno nelle sue forme attuali . La sociologa Danielle Hervieu-Léger parla, a questo riguardo di una esculturazione del cristianesimo : “la Chiesa, dice questa sociologa , ha smesso di costituire, nella Francia d’oggi , il riferimento implicito e la matrice del nostro paesaggio globale (…..). Nel tempo dell’ultra modernità, la società , scaturita dalla religione elimina persino le impronte che ha lasciato nella cultura2 “

1.2 Tempo di procreazione. Il cristianesimo che viene

Ma in questa stessa rottura che non si puo’ minimizzare, ci sono anche nel medesimo tempo, sul piano culturale e religioso, nuove emergenze e ricostruzioni promettenti. La crisi da questo punto di vista, é veramente un tempo di grazia, un momento creativo e di concepimento che puo’ riservarci delle sorprese.

Nella Chiesa si avvertono segni evidenti di vitalità: un numero in crescita di catecumeni e di battesimi di adulti, la moltiplicazione di corsi di formazione teologica e pastorale per laici, progetti rinnovati di catechesi, la reale democratizzazione di comunità locali a dispetto degli irrigidimenti romani, l’impegno dei laici, soprattutto donne, in ruoli ministeriali, nelle nuove iniziative mediatiche, i grandi raduni ecc. Tutti noi conosciamo persone che stanno bene di testa, di salute, e stanno bene nella loro fede, ad di là della crisi.

Ma é soprattatutto il mondo contemporaneo che, nella crisi della cultura che sta attraversando, nasconde promettenti risorse. A fronte della sfida del pianeta, si stà affermando un bisogno di spiritualità, un richiamo ai valori, un affinamento della coscienza etica contemporaneamente a una ricerca di senso. Si cerca un nuovo equilibrio tra le religioni e la laicità. I temi religiosi e interreligiosi sono dibattuti nei media.

Ogni cultura é evangelizzabile. E a questo riguardo, nella situazione culturale che é la nostra, la disponibilità di riascoltare il Vangelo in modo nuovo é sempre presente. Questa disponibilità non si misura con le statistiche di partecipazione alla messa domenicale, ma affiora nella vita stessa, nelle conversazioni e negli scambi. C’é nell’aria del tempo, di fronte alle sfide che rappresenta l’avvenire del mondo, nuove possibilità di riscoprire la fede, al di là degli stereotipi, come sensata, salutare, buona, desiderabile per la vita.

Tempo di crisi dunque, della transimissione della fede, ma anche tempo di inizio e re-inizio della fede. Tale é mi sembra, la nostra situazione che si puo’ qualificare di evangelizzazione.

Domande. Questa situazione ho detto all’inizio, riguarda il mondo dei gadjé e i nomadi ? Sono anch’essi attraversati da questa duplice secolarizzazione di cui ho parlato ? Sono restati ai margini di questa evoluzione ? Hanno mantenuto le loro credenze e pratiche religiose tradizionali ? Come si situano nella loro fede a fronte dell’evoluzione culturale e religiose del mondo dei gadjé ? Come le giovani generazioni dei Rom/Sinti si situano in questa secolarizzazione della società ?

  • 2. PER UNA PASTORALE DI PROCREAZIONE

Nella situazione di crisi, di inizio o di re-inizio che ho evocato, ci occorre una pastorale chiamata procreativa che si puo’ distinguere da una pastorale di inquadramento.

Per far capire la differenza tra una pastorale di ri-nascita e una pastorale di inquadramento, vorrei passare, attraverso un racconto di un fatto reale, che puo’ servire come parabola nel campo pastorale.
2.1.1« Rimboschire la foresta dopo la tempesta » : una parabola per il nostro tempo

Il 26 dicembre 1999 , un uragano chiamato Lothar si é abbatuto sull’Europa, in modo particolare nell’EST della Francia , con venti a piu’ di 150 Km. all’ora. Si stima che 300 milioni di alberi sono stati abbattuti sul territorio Francese. L’uragano ha lasciato dietro di sé uno spettacolo di desolazione. Ci sono stati una sessantina di morti e un certo numero di suicidi di guardie forestali o di proprietari che non hanno potuto sopportare l’ampiezza della catastrofe. «una cattedrale crollata non é grave » dice una guardia forestale, la si puo’ riscostruire. Una quercia di 300 o di 400 anni, non si puo’.»

Dopo la catastrofe, uffici studi hanno subito elaborato programmi di rimboschimento, progetti di re-impiantazione, piani di ripopolamento. Si trattava di approffittare della catastrofe per ricostruire la foresta secondo l’immagine ideale che uno si poteva fare.

Ma una volta che si é trattato di mettere in opera questi piani di rimboschimento, gli ingegneri forestali hanno costatato che il bosco li aveva anticipati. Hanno constatato una rigenerazione piu’ rapida del previsto che metteva in questione i piani di rimboschimento previsti, manifestando configurazioni nuove piu’ vantaggiose alle quali gli uffici studi non avevano pensato. La rigenerazione naturale della foresta manisfestava, a ben guardare, una migliore biodiveristà, e un migliore equilibrio ecologico tra épicéas e il fogliame. Alcune specie che erano state soffocate dal vecchio bosco potevano rinascere. La catastrofe si rivelo’ anche utile per la rinascita o l’espansione di certe speci di animali.

Da una politica volontaristica di ricostruzione del bosco secondo i loro piani, gli ingegneri forestali sono passati a una politica piu’ morbida di accompagnamento di rigenerazione naturale del bosco considerando e assumendo le nuove possibilità più vantaggiose che offriva questa rinascita naturale. Non si trattava di rinunciare ad ogni intervento, ma piuttosto con piu’ competenza, di accompagnare in modo attivo e attento , un processo di rinascita naturale. Ecco che cosa dice un ingegnere forestale su questo stile di accompagnamento : “sono germogliate tenere pianticelle di alberi di varie speci. Il nostro lavoro é stato allora, di estrarle delicatamente, di curarle, di accogliere la vita della natura, piuttosto di credere che fosse scomparsa, piuttosto di re-impiantarle artificialmente. Questo é stato un incoraggiamento per noi 3”

Facciamo ora un esercizio di applicazione del nostro argomento pastorale. Anche la Chiesa ha conosciuto, particolarmente da circa 40 anni un uragano. Il paesaggio religioso, perlomeno nelle sue espressioni tradizionali, é devastato. Certamente, un paragone non é una ragione : l’umanita non é un bosco e gli esseri umani non sono alberi, ma cio’ che ci interessa per analogia, per cio’ che vogliamo proporre, é il cambiamento di comportamento dei forestali: il loro passaggio da una politica volontaristica di ricostruzione del bosco ad una politica di affiancamento, attiva e lucida di una rigenerazione in corso. Non si potrebbe anche attuare questo stesso passaggio nella Pastorale: passaggio da una pastorale di inquadramento ad una pastorale di procreazione ?

2.2 Una pastorale inquadrata secondo il paradigma della “padronanza”

Secondo questa pastorale – corrispondente al primo atteggiamento degli addetti alla foresta – si tratta di costruire o ricostruire l’avvenire secondo i nostri piani ed a partire dalle nostre proprie forze, come se tutto dipendesse da noi. Entriamo allora nella pastorale con un immaginario di intraprendenza e di impresa o di potere sugli esseri e sulle cose, secondo la nostra pianificazione.

Notiamo che questa pastorale inquadrata si puo’ effettuare altrettanto in uno spirito nostalgico di restaurazione di quello che era in passato che in uno spirito progressista per una Chiesa nuova. Nei due casi, è uno stesso immaginario di intraprendenza e di impresa, come se tutto dipendesse dallo svolgersi della nostra azione, la sola che conterebbe. Nei due casi in modo identico siamo condotti all’attivismo secondo il quale non abbiamo mai fatto abbastanza o fatto bene, ad un senso di impotenza, al disfattismo ed alla depressione quando le resistenze incontrate sono troppo forti. Attivismo e disfattismo sono, a questo riguardo, atteggiamenti gemelli: sono ambedue dipendenti da un medesimo immaginario di “maitrise”, di padronanza;

2.3 Pastorale secondo il paradigma della procreazione: accompagnare quello che nasce

Questa pastorale corrisponde al secondo atteggiamento degli addetti alla foresta: consiste nell’accompagnare, attivamente, con discernimento e competenza una rigenerazione ed una crescita di cui noi non siamo i padroni. Si tratta di vagliare le nuove opportunità che si offrono senza che noi le abbiamo programmate; si tratta in questa pastorale di mettersi al servizio di quello che nasce, discernere le aspirazioni, pesare le cose, prendere il tempo della concertazione, deliberare, cioè prendere decisioni che liberino, che “autorizzino”, che rendano autori. E’ accogliere e lanciare progetti, donando possibilità all’inedito, contando sui fattori che non padroneggiamo, dando fiducia a forze che non sono le nostre.

Di fatto, in una pastorale di procreazione, accettiamo quella che è la condizione di ogni nascita: In primo luogo, non siamo noi all’origine della nascita e della crescita

Secondariamente, generiamo sempre qualcosa di diverso da noi stessi. Generare è sempre far nascere qualcosa di differente. Quello che nasce è sempre diverso da noi stessi. La trasmissione della fede, da questo punto di vista, non è nell’ordine della riproduzione o della clonazione. E’ sempre nell’ordine dell’evento.

In questa pastorale si parte dal principio che l’essere umano è “capace di Dio”:

Non siamo noi a dovere produrre in lui questa capacità. Neanche abbiamo il potere di comunicare la fede. Non fabbrichiamo dei nuovi cristiani cosi’ come fabbrichiamo panini o pneumatici Michelin. La fede di un nuovo credente sarà sempre una sorpresa e non il frutto dei nostri sforzi, il risultato di una nostra impresa. Certo, la fede non si trasmette senza di noi, ma noi non abbiamo il potere di comunicarla. Ma il nostro dovere è vegliare sulle condizioni che la rendono possibile, comprensibile, praticabile e desiderabile. La pastorale lavora sulle condizioni. Il resto è il lavoro della grazia e della libertà.

Quello che ho detto sulla pastorale della procreazione è profondamente coerente col Vangelo. Tutto quello che possiamo fare è seminare. Il Vangelo parla della missione come seminagione. “Il seminatore è uscito per andare a seminare; vegli o dorma, il seme cresce; come, egli stesso non lo sa.” (Mc 4,26-27). Da questo punto di vista, la pastorale si presenta come un’alchimia sottile tra le azioni da condurre e la necessità di “ritirarsi” per lasciar accadere cio’ che sta nascendo.

Domande. E nel mondo dei Rom/Sinti, considerati in se stessi o nelle loro relazioni con i Gagé, cos’è che sta nascendo? Quali sono le aspirazioni, quali sono le forze di crescita, nuove o vecchie, inattese o inesplorate, che appaiono portatrici di futuro per un mondo più secondo il Vangelo?

  • 3. PICCOLA GRAMMATICA SPIRITUALE PER UNA PASTORALE DI PROCREAZIONE

Piu’ in concreto. Vorrei proporre in questo terzo punto alcuni atteggiamenti che favoriscono una pastorale che fa nascere. Si tratterà di atteggiamenti spirituali, di modi di essere, di modi di comportarsi che si mettono al servizio delle forze di crescita per lasciare avvenire il cristianesimo di domani. In fondo cio’ che io proporrei é una piccola grammatica spirituale per gli operatori pastorali, in un tempo di cambiamenti, al servizio di un mondo che viene. Questa piccola grammatica spirituale, richiede da principio un lavoro su se stessi. Tocca lo spirito, il tuo proprio, la nostra maniera di situarci nella pastorale, di trovarci il nostro posto.

Io proporrei qui 9 atteggiamenti : 3 serie di 3 ciascuna, che si articolano tra loro in 3 tempi :

  • andare verso, spostarsi verso gli altri
  • incontrarsi , solidarizzare e dialogare
  • infine, scomparire, permettere, e rendere protagonisti

* DE-LOCALIZZARSI PER ANDARE VERSO L’ALTRO

3.1 Rimanere costantemente destinatari del Vangelo

Quando annunciamo il Vangelo, noi rischiamo, senza rendercene conto, di dimenticare di restarne i primi destinatari.

Tutto allora accade come se, essendoci noi appropriati completamente del Vangelo, non ci restasse altro che trasmetterlo agli altri. E’ un po’ come se non avessimo più niente da ascoltare e da ricevere dal Vangelo, ma diventati “maestri” nell’arte di comprendere e vivere il Vangelo, non ci restasse altro che essere coloro che lo dispensano agli altri.

Il Vangelo avverte i pastori; si possono mettere in una situazione in cui, annunciando il Vangelo, non si lasciano più evangelizzare. La pretesa di sapere, la tentazione del potere possono accecare. Noi conosciamo tutti certe prassi pastorali che, anche se condotte in nome del Vangelo, respirano più l’aria della conquista, la volontà di potere o la nostalgia del passato che la Buona Novella stessa. Da qui l’importanza che l’evangelizzatore rimanga sempre incessantemente destinatario del Vangelo. Di conseguenza per l’evangelizzatore, la prima domanda che deve rivolgersi non è sapere “Come annunciare il Vangelo?”, ma piuttosto “Cosa dice oggi a me il Vangelo?”

Domande. Non c’è per caso fra i Gadjé l’idea di essere loro evangelizzati mentre gli Zingari lo sarebbero poco o male? Questa presunzione non induce una pastorale squilibrata nei confronti degli Zingari, portatrice più di pregiudizio, di pretesa e di volontà di potenza che di ascolto mutuo e di testimonianza reciproca?

3.2 Ascoltare una parola che invita a spostarsi laddove Cristo Risorto si trova : « Non sta qui. Egli vi precede in Galilea, là lo troverete.” Mc 16,7.

Restare assiduamente destinatari del Vangelo, abbiamo appena detto. Però, cosa ci dice il Vangelo al mattino di Pasqua? “Egli non sta qui. Egli vi precede in Galilea, là lo troverete”. Quest’ annuncio angelico spiazza continuamente l’evangelizzatore. C’è qui, un rovesciamento di prospettiva radicale. Non abbiamo Cristo con noi come un oggetto tenuto, posseduto, ammaestrato che bisognerebbe trasmettere agli altri che non lo conoscerebbero. Cristo non è un oggetto posseduto che si puo tenere “qui”. Bisogna, per raggiungerlo, uscire di casa, lasciare il proprio luogo e andare in un’altro – la Galilea delle nazioni- laddove Egli ci precede.

Là dove si arriva, si è sempre preceduti dallo spirito di Cristo. Non portiamo agli altri cio che non hanno, ma li raggiungiamo sulla loro strada per scoprire con loro le tracce di Cristo rissuscitato già lì. La fede è un cammino di riconoscienza di ciò che è già dato segretamente.

Lo spirito di Cristo Risorto ci precede sempre. Da tutti i punti di vista, abbiamo sempre da lasciarsi evangelizzare da chi si evangelizza. “Uno stesso Spirito opera nell’evangelizzatore e nell’evangelizzato, e il primo, se sa cosa propone, accetta anche di essere convertito da colui che ha accettato di ascoltarlo”. Tutta l’arte dell’evangelizzatore sta allora nel favorire la riconoscienza, nel discernere e nell’indicare col dito la presenza del Regno nelle persone e nelle situazioni, anche dove meno lo si aspetta.

E anche, andiamo verso l’altro, non per guadagnarlo alla nostra causa, non per portargli ciò che non ha, ma per riconoscere con lui, nella sua vita, la presenza del Risorto in una maniera che puo sorprenderci. Così dobbiamo ricevere da chi evangelizziamo la testimonianza dell’opera di Dio già in loro.

Domanda. Se applichiamo le prospettive enunciate qui alle relazioni tra Rom/Sintii e Gadjé, non siamo verso una pastorale dove uno va verso l`altro non per portargli ciò che non ha, ma per scoprire, in lui e con lui, le tracce del Regno di Dio già presente?

3.3 Rischiare l’accoglienza nel luogo dell’altro. Farsi accogliere e accogliere.

Il compito dell’evangelizzazione è spesso definito in termini di esigenza dell’accoglienza.
“Le nostre comunità cristiane, si dice, devono essere accoglienti” E riguardo agli Zingari in particolare, si sottolinea l’esigenza dell’accoglienza. Ovviamente. Ma non c’è in questo invito ad essere accoglienti verso gli altri, una posizione di superiorità nel loro posto? Infatti, quando molteplichiamo i segni di accoglienza, non stiamo dicendo loro implicitamente: “venite a trovare da noi ciò che non c’è da voi”? Così, nel gioco della comunicazione, quello che accoglie si pone in posizione superiore, mentre quello che viene accolto è rimandato in una posizione più bassa. Da qui viene la difficoltà di guidare un dialogo evangelico, quando ci si trova in un rapporto dominante/dominato. Così pure l’atteggiamento di astuzia di chi si sente in posizione di dominato. L’astuzia non è la forza dei deboli?

Per uscire da questo rapporto di disuguaglianza, dove ci sono dei dominanti e dei dominati non si dovrebbe, come conforme al Vangelo invertire la logica: non tanto cercare di accogliere l’altro in casa nostra, quanto a rischiare di vivere l’accoglienza presso di lui, avendo fede nelle sue capacità di accoglienza?

Il Vangelo parla di ospitalità richiesta. Il Vangelo, infatti, non ci dice: “Siate accoglienti” Ci invita piuttosto a spostarci verso l’altro per riceverne l’ospitalità. “Zaccheo, oggi devo fermarmi in casa tua.” (Lc 19,5). “Quando avete trovato l’ospitalità in una casa, rimaneteci fino alla vostra partenza” (Mc 6,10). “Chi vi accoglie, mi accoglie” (Mt 10.40). “Rimango alla porta e busso. Se qualcuno mi sente, entrerò e prenderò il pasto con lui e lui con me” (Ap 3,20).

Queste prospettive evangeliche non tolgono, ovviamente le esigenze dell’accoglienza in sè, ma sarà allora vissuta in vista di reciprocità dove gli uni e gli altri danno e ricevono. L’ospitalità ricevuta, in effetti, chiama l’ospitalità resa. La parola “oste” rinvia infatti alla persona accolta, quanto alla personna che accoglie.

Domanda. Come sviluppare nei Gadjé, come negli Zingari la capacità di portarsi verso l’altro, avendo fede nelle sue capacità d’accoglienza? Come, nell’accoglienza, evitare il rapporto dominato/ dominante?

I tre primi atteggiamenti riguardano l’uscita da sè verso l’altro. I prossimi quattro atteggiamenti sono del secondo tempo di cui ho parlato sopra: l’incontro, il dialogo con l’altro.

* INCONTRARE, SOLIDARIZZARSI, SCAMBIARE

3.4 Umanizzare, fraternizzare come fine in sè. Situare la fede come un accrescimento desiderabile nel campo della fratenità.

Affrontando l’accoglienza dell’altro, ci si potrà sforzare a legarsi con lui, di allacciare dei legami di solidarietà in un’opera comune di umanizzazione. “Le gioie e le pene, le speranze e le angoscie degli uomini di questo tempo, dei poveri soprattutto, sono anche le gioie e le pene, le speranze e le angoscie dei discepoli di Cristo. Non cè nulla di umano che non trovi eco nel loro cuore”.(G.S.1)

Tutto comincia nel Vangelo con un lavoro di umanizzazione: si tratta di fare avvenire l’umano, di uscire dalla violenza e di annodare dei legami di fraternità. Tutta l’azione pastorale, a questo riguardo, deve accettare la prima missione, in nome del Vangelo, di umanizzare e di tessere tra gli esseri umani dei legami di fraternità. Questa umanizzazione/fraternità è un fine in sè. Non è una strategia pastorale per annunciare il vangelo. Ma inoltre, questa umanizzazione/fratenità costituisce il terreno favorevole all’annuncio evangelico, in un clima di fratemità precisamente, fuori di volontà di potenza sull’altro. E quest’annuncio evangelico, esso stesso è un fine in se, indipendamente della risposta. L’annuncio evangelico ha un senso in sè. Prima di tutto, perchè l’altro in virtù della destinazione universale della Buona Notizia ha diritto di sentirla. Poi, perchè l’annuncio è da se un atto di carità dove si offre il miglio di sè all’altro, che lo accetti o no. E se l’altro mi ascolta, sarà una grazia in più perchè la gioia dell’uno e dell’altro, secondo l’espressione del prima Lettera di Giovanni, sia colma. Cosi l’umanizzazione, l’evangelizzazione e la conversione al Vangelo, vanno insieme in una logica di “grazia su grazia”.

Domande. Quale sono le cause umane per le quali Zingari e Gadjé possono unirsi solidariamente? Come, nel seno di tale unione solidaria per cause comuni, il Vangelo può essere annunciato e condiviso nella fraternità?

3.5 Mantenere la memoria cristiana. Metterla in dibattito.

Ogni azione evangelizzatrice, abbiamo detto, comincia con l’impegno di solidarietà per un’umanità migliore. Ma, non si ferma qui. Consiste anche, su questi cammini di solidarietà, ad annunciare il Vangelo e a mantenere la memoria della tradizione cristiana. Mantenere questa memoria in una situazione socio-culturale data, non significa trattenerla intatta, ma metterla in dibattito, in discussione, in condivisione affinchè possa essere riespressa e messa alla prova sempre di nuovo, come portatrice di vita, come buona e feconda per la vita. Lo scopo del dibattito è di fare valere la tradizione, non come un blocco imposto, ma come una risorsa che stà li, che “dà a pensare” e fa vivere. “Dare a pensare”, l’espressione sempre felice, perchè unisce, a sua volta l’aspetto di leggerezza della fede che non si impone e non pesa, ma anche per gli aspetti gravosi, per la posta umana in gioco. Un dovere di intelligenza s’impone qui. A questo sguardo, ciò di cui abbiamo bisogno in pastorale, è di una teologia intelligente, semplice, non riservata ai colti, che rende la fede desiderabile.

Domande. In tale perspettiva, quale sono i luoghi, i momenti, le occasioni in cui Gadjé e Zingari possono incontrarsi per mantenere insieme la memoria cristiana e metterla in discussione? Vediamo dei luoghi, dei momenti, delle circonstanze in cui gli uni e gli altri possono aiutarsi a scoprire la fede e a renderla possibile oggi?

3.6 Mettere “in lavoro” le immagini, le rappresentazioni di Dio.

In cammino, in questa doppia predicazione, si incontreranno senz’altro delle opposizioni che vengono da certe immagini di Dio che bloccano la fede, provocano il rifiuto o la fanno vivere in maniere servile. Da li, sulla breccia, camminando, dialogando, bisogna finchè si può, compreso con se stessi, togliere gli ostacoli che rappresentano le immagini di Dio che non sono liberatrici per l’uomo.

Ci sono anche immagini di Dio che rendono la fede impossibile, incredibile, insopportabile anche. Altre immagini di Dio fanno vivere nella fede ma in maniera che può essere servile e anche alienante. Altre immagini di Dio, invece, possono essere umanizzanti e liberatrici. Così, ogni opera di evangelizzazione passa da una messa in lavorazione delle nostre rappresentazioni di Dio.

Questo lavoro di rappresentazione di Dio comporta perchè, ricordiamocene, il dramma della nostra umanità, secondo il racconto della Genesi, è cominciato con una falsa immagine di Dio insinuata a noi dalla voce del serpente. Quest’ultimo cambia il senso del divieto divino, facendolo passare per un limite alla libertà umana, come l’espressione di un Dio geloso concorrente dell’uomo. Il divieto, però era un appello indirizzato alla libertà umana di non agire in modo arbitrario per proteggere la vita data. Ci sono anche immagini di Dio che lo mettono nelle cause immediate che ci capitano, rendendolo cosi ingiusto o incredibile. Ci sono ancora espressioni della fede che asserviscono l’uomo in un ordine religioso al posto di mettere la religione al servizio dell’uomo. E’ il dibattito in cui Gesù stesso si è immerso: il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato. La pastorale di pro-creazione richiede un lavoro fine delle rappresentazioni che onorano Dio quanto l’uomo. Perchè i due vanno insieme: un dio che falsifica l’uomo è un falso dio. E nell’eccellenza dell’umano che la verità di Dio si manifesta.

Domande. Quali immagini di Dio sembrano diverse secondo che si stia in un ambiente gadjé o zingaro? Sembra , a questo riguardo, che nella tradizione religiosa dei Zingari, la fede sia principalmente vissuta come un principio di protezione e di soccorso nelle difficoltà. Dalla parte dei Gadjé, invece, si è piuttosto critico verso un Dio intervenzionista che agisce in modo immediato. Cosa gli uni possono ricevere dagli altri per crescere nella loro fede?

* AUTORIZZARE, RENDERE AUTORE

3.7 Cogliere le resistenze come delle fortune.

Annunciare il Vangelo non è mai senza qualche resistenza. Ci si può scoraggirare, recriminare, voler forzare la porta. Ma si può anche cogliere le resistenze come delle possibilità per un lavoro di inculturazione della fede. La storia dimostra, in effetti che le inculturazioni riuscite sono il frutto della resistenza delle popolazioni locali sotto forma di cristianesimo che loro hanno portato, che ha dato materia per creare del nuovo, per aprire delle espressioni originali della fede. Questa resistenza non significa sempre rifiuto, ma può anche essere un appello ad inventare forme di cristianesimo adattate alle aspirazioni legittime della gente. Da questo punto di vista, l’inculturazione della fede è un processo “per il quale una popolazione assimila il Vangelo, cioè gli resiste appropriandoselo, ricreandolo e esprimendolo a partire dalle proprie radici storiche e culturali, dando al cristianesimo un volto nuovo e una espressione originale”. Le inculturazioni della fede riuscite sono le espressioni, i modi di pensare, di celebrare e di vivere la fede che sono state inventate o rinnovate a causa delle resistenze incontrate. Ad esempio, la messa in rito Zairese viene da una resistenza delle popolazioni locali alle forme liturgiche romane classiche.

Oggi, si conoscono molte resistenze alle forme eritate dal cristianesimo: relativamente, ad esempio, alla pratiche della confessione, alle vocazioni sacerdotali, alle tappe che portano al matrimonio sacramentale. Non ci sarebbe una maniera positiva di cogliere tali resistenze come un appello a inventare delle forme originali di pensare, di vivere e di celebrare che rende il cristianesimo di nuovo desiderabile.

Domande. Gli Zingari manifestano senza dubbio delle resistenze in confronto al cristianesimo dei Gadjé. In che modo, concretamente, tali resistenze aprono uno spazio perchè emergino in mondo zingaro delle forme originali del pensiero, della vita e della celebrazione cristiana?

3.8 Fare la differenza tra “credere con” e “credere come”.

In questa ottica di lasciare avvenire delle forme originali e nuove di cristianesimo, conviene distinguere la differenza tra “credere con” e “credere come”. Oggi non crediamo come i nostri nonni e i nostri nipoti non crederanno come noi. Però, malgrado queste differenze, si può vivere una vera comunione nella fede. La domanda fatta con la distinzione “credere con” e “credere corne” è quella della sfida dell’unità e della diversità.

Rischiamo sempre come pastori, di volere che l’altro creda “come noi”: la trasmissione della fede si situa allora nell’orizzonte di una riproduzione o di una imitazione di ciò che noi stessi viviamo. Ma il rischio, allora è quello di ingombrare l’accesso alla fede con le nostre strettezze imponendo un cammino e la loro maniera di vivere la fede. Era già la tentazione degli ebrei convertiti al cristianesimo che volevano imporre ai pagani diventati cristiani le loro tradizioni e i loro costumi. “Sono dunque del parere di non accumulare gli ostacoli davanti ai pagani che si convertano a Dio.” `(At. 15,19). Queste parole dell’apostolo Giacomo, al termine dell’Assemblea di Gerusalemme, dovrebbe ispirarci senza tregua la necessaria riserva davanti all’altro, perchè possa nascere secondo le proprie caratteristiche, di appropriarsi il messaggio cristiano e di diventare discepolo di Cristo.

In un tempo di mutazioni come il nostro, bisogna lasciare il campo all’emergenza di una “bio-diversità ecclesiastica” che dia diritto alle aspirazioni e alla singolarità delle persone e facilitare così la grazia di diventare cristiano. La trasmissione della fede non è mai di ordine del clonaggio, ma implica sempre una appropriazione inventiva. Da qui la diversità, ma anche l’unità.

Per capire questo rapporto unità e diversità, si può prendere il paragone del volto umano. Questo è riperibile da una forma comune, però un viso umano può essere estremamente diverso. Lo stesso è per il cristianesimo, ha qualche tratto (il segno della Croce, il Credo, la letture delle Scritture, la comunione eucaristica, l’impegno per più umanità) che permettono di distinguerlo, ma le figure concrete della sua incarnazione possono essere diverse. Da cui l’apertura necessaria di uno spazio di creatività e d’immaginazione nell’invenzione del cristianesimo. La condizione della trasmissione della fede va con la capacità ad appropriarsela in maniera inventiva.

Domande. I cristiani zingari non credono senz’altro come i crisliani gadjé, e vice versa. Quali sono le differenze che si manifestano? Come però possono credere e celebrare insieme benchè diversamente? Cosa possono scambiarsi mutualmente? Cosa puo porlare ai Gadjé “la spiritualità del viaggio” degli Zingari?

3.9 Chiedere e ricevere aiuto. Contare su dei fattori che non sono ammaestrabili.

Spesso, l’evangelizzazione viene concepita a partire dalle nostre forze e ricchezze. Ma perchè bisognerebbe che l’evangelizzazione si producca quando si è forti e non quando si è deboli. Cosa fare, in un tempo di mutazioni come il nostro, dove si è presi nello sconvolgimento che ci sfugge e in cui manchiamo di forze? Questa era la domanda dei discepoli a Gesù facendo l’inventario di cio che possiedevano: “Cos’è questo per così tanta gente?”

In tali situazioni, come oggi, l’essenziale è di portare quel poco che si ha, di osare a chiedere l’aiuto agli altri e di contare sui fattori che non si controllano.

Portare il poco che uno ha, infatti, e osare chiedere aiuto agli altri. Quello che non chiede nulla agli altri è auto-sufficiente; non vive. Al contrario, nella logica evangelica, la domanda apre una storia e permette di vivere. “Chiedete e receverete”, “Bussate e vi sarà aperto”. Così, nella nostra missione evangelica, dobbiamo osare a rivolgerci all’altro per chiedere aiuto e consigli, non solo nel seno della comunità cristiana, ma anche di fuori. Quest’aiuto può essere materiale, tecnico, culturale, artistico. Si possono trovare oggi delle persone, delle associazioni, delle collettività che, pur non appartenendo alla comunità cristiana, sono disposte a favorire la vitalità della tradizione cristiana all’interno della società in uno spirito di benevolenza e di sostegno di tutto ciò che solidariamente fa la nostra umanità.

E anche senza aver richiesto nulla, dobbiamo anche, nel nostro compito di evangelizzazione, contare sui fattori che non controlliamo, su alleati inaspettati. Questi alleati inaspettati possono essere persone, degli eventi, delle teorie, delle nuove aspirazioni culturali: in un contesto dato, senza che lo si abbia potuto prevedere, ci portano il loro contributo e danno peso supplementare al messaggio evangelico. L’evangelizzazione, in questo senso, non dipende delle nostre forze; dipende anche da fattori imprevedibili come l’immagine di Ciro, re dei Persi, immagine dello straniero che il Signore, contro ogni attesa, lo chiamò per costruire Gerusalemme e ristabilire il popolo nella sua libertà. “Sono io che dico di Ciro: Egli è il mio pastore che compierà le mie volontà, ricostruirà Gerusalemme e riedificherà il Tempio” (Is 44,28).

In questo spirito di fiducia e di libertà, senz’altro dobbiamo sentire le parole di Gamaliele al Sinedrio a proposito della missione dei discepoli di Gesù: “Se la loro impresa o la loro opera viene dagli uomini, si distruggerà da sè, ma se veramente viene da Dio, non riuscirete a distruggela” (At. 5, 38-39)

Domande. Quale aiuto i Gadjé potrebbero chiedere agli Zingari nell’opera di evangelizzazione dei Gadjé? E reciprocamente quale aiuto gli Zingari potrebbero chiedere ai Gadjé nell’evangelizzazione degli Zingari? Come favorire l’audaccia di questa richiesta di aiuto reciproco?

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I nuovi atteggiamenti che ho enunciato qui per favorire la procreazione della fede in un tempo di mutazioni riguardano tanto i Gadji quanto gli Zingari. Gli uni come gli altri, gli uni per gli altri, sono “capaci di Dio”. Il mondo che viene non sarà mai il puro prodotto dei nostri sforzi, ma il nuovo frutto, inatteso, sorprendente della libertà umana e del lavoro dello Spirito nel cuore del mondo, presso i Gadjé come presso gli Zingari.

André Fossion s.j.
Centre Lumen Vitae, Bruxelles
http://www.lumenonline.net
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