Sab 9 Giu 2007 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

«Dategli voi stessi da mangiare»

Allora prese con sé gli apostoli e si ritirò verso una città chiamata Bet­sàida. Ma le folle lo seppero e lo seguirono. Egli le accolse e prese a parlar loro del regno di Dio e a guarire quanti avevan bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono di­cendo: «Congeda la folla, perché vada nei villaggi e nelle campagne dintorno per alloggiare e trovar cibo, poiché qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Dategli voi stessi da mangiare». Ma essi ri­sposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai discepoli: «Fateli sedere per gruppi di cinquanta». Così fecero e li invitarono a sedersi tutti quanti. Allora egli prese i cinque pani e i due pesci e, levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono e si saziarono e delle parti loro avanzate fu­rono portate via dodici ceste.

* Spezzare il pane

IIl nome più antico della celebrazione eucaristica è: spezzare il pane. Gli Atti degli Apostoli ci narrano la storia dei primi cristiani. Ecco un brano: «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nella pre­ghiera» (At 2,42). Frazione del pane altro non è che l’espressione an­tica per spezzare il pane. Lo spezzare il pane era un gesto particolar­mente carico di significato, che veniva ripetuto più volte al giorno in ogni casa. Infatti tutta la famiglia si sfamava da un unico grosso pane posto al centro della tavola. Spezzare e distribuire significava man­giare. Per i discepoli era diventato il gesto che contraddistingueva il loro maestro, Cristo, perché egli lo compiva con immensa partecipazione, come il gesto che esprimeva tutto il Vangelo. I due discepoli fuggiaschi di Emmaus lo avevano riconosciuto non mentre discuteva con loro di esegesi biblica, ma «quando fu a tavola con loro prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» 24,30-31). Tutti i discepoli conservavano ben impresso nella memoria soprattutto il gesto solenne dell’ultima cena, quando Cristo aveva preso il pane, lo aveva spezzato e dato loro da mangiare dicendo «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me», e poi aveva preso il calice del vino e, dandolo da bere, aveva detto: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi» (Lc 22,19-20).

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Lo spezzare il pane è il gesto che si confà perfettamente al modo di vivere la vita indicato dal Vangelo. Tale gesto è detto sacramento perché manifesta, suscita, mette in atto nell’uomo che se ne ciba e nel mondo intero il modo di vivere che indica. Adorare il Padre trascendente che è nei cieli è un tutt’uno con essere fratello verso le creature immanenti della storia. Il discepolo, nutrito del pane spezzato che riceve dalle mani di Cristo, diviene lui stesso pane che lascia spezzare e distribuire. E la comunione fra fratelli è la vera gloria di Dio, perché conforma a Dio che è comunione.

«Allora egli prese i cinque pani e i due pesci e, levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla». Lo spezzare il pane è preceduto dalle espresioni verbali prese, levati gli occhi al cielo, benedisse. Sono i verbi che evidenziano l’impostazione di vita fondata sullo spezzare il pan monte c’è un grande stupore di esistere e di trovarci qui con quel corpo ricevuto in dono alla nascita; corpo che ogni giorno viene nutrito grazie al pane che si lascia spezzare, inghiottire e assimilare. Stupisce che tutto il cosmo collabori al sostentamento del corpo di me, uomo: dal sole, alla pioggia, all’aria, al concime, al lavoro degli animali e delle macchine. L’uomo deve con cura prendere la nelle sue mani, quella vita che ha ricevuto dal cielo, deve levare gli occhi verso l’alto, riconoscente che tutto è dono, deve benedire il dato di fatto di esistere, deve poi spezzare la sua esistenza e diastribuirla in servizio, offrendo il proprio corpo affinché sia nutrimento per le creature sorelle. «Li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono e si saziarono».

I cinque pani e i due pesci si moltiplicarono proprio mentre Cristo li spezzava e li distribuiva. Se la via della moltiplicazione del cibo per l’uomo del mondo è l’accumulo e il monopolio, per Cristo è la condivisione. Come tutto il cosmo, grazie alla sua armonica collaborazione, produce i chicchi di frumento uno a uno, così la comumione tra gli uomini moltiplica il pane e il pesce per tutti i viventi.

Possa il turista non battezzato, completamente ignaro dei mes­saggi cristiani, che visita una chiesa mentre viene celebrata l’eucari­stia, intuire dall’atteggiamento del sacerdote e dei fedeli che quel pane e quel calice di vino sono il sacramento del corpo e del sangue di Dio che redime e glorifica l’universo intero! La celebrazione del­l’eucaristia è seria quando è seria la condivisione del cibo a tavola; e questa è seria quando è seria la vita. Chi non spezza con devozione il pane a tavola, non lo può spezzare con devozione all’altare. All’al­tare il pane è sacramento della vita; ma sulla tavola è la vita stessa che il sacramento indica. I due discepoli di Emmaus, fuggiaschi e sfi­duciata, lo riconobbero allo spezzare del pane sulla tavola della cena. Quanti affamati esistono nel mondo! E quante tavole lautamente imbandite al servizio del piacere egoico! Il pane non è ancora spez­zato. Così il mondo non può riconoscerlo! Le nostre messe non sono ancora autentiche!’ «Dategli voi stessi da mangiare».

p.Luciano

* Dategliene voi stessi

Nella sensibilità religiosa ebraica nutrire la folla nel deserto è qualcosa che tocca arcane corde, che vanno aldilà della contingenza della fame del momento. La folla è il popolo tutto, il popolo di Dio. La condizione di essere senza cibo nel deserto è storica e spirituale insieme. Il deserto, luogo fisico in cui il popolo ebraico vive da sem­pre, è di per sé un posto in cui il cibo scarseggia e dove non si ripro­duce spontaneamente: inoltre è una metafora della vita umana, la condizione di deserto, dentro e fuori di sé, che prima o poi ognuno sperimenta per periodi di tempo più o meno lunghi. Nell’Antico Te­stamento è la manna inviata dal cielo il cibo, fisico e spirituale, che sazia la fame fisica e spirituale della folla nel deserto. La novità del Nuovo Testamento è rappresentata dal fatto che quel cibo non piove più dal cielo, ma è la carne del Figlio dell’uomo. Nel Vangelo torna sempre il richiamo al pane, all’acqua, al vino, al pesce, ai cibi più ma­teriali e comuni, identificati come carne di Dio, nutrimento del corpo e dello spirito. Per il popolo ebraico, nutrire nel deserto cin­quemila persone con cinque pani e due pesci, non è un miracolo di moltiplicazione o di divisione: rappresenta l’intervento diretto di Dio che nutre il suo popolo. Non è un miracolo, perché Dio non fa miracoli, non ne ha bisogno: la facoltà creatrice è inesauribile.

Questo episodio è riportato da tutti e quattro i Vangeli. In Mat­teo, Marco e Luca c’è una frase che Gesù dice, identica nelle tre ste­sure (in Giovanni quella identica frase non c’è, ma lo stesso concetto è espresso in modo inequivocabile): «Gesù disse loro: “Dategli voi stessi da mangiare”». La prima cosa che Gesù dice ai discepoli, smar­riti di fronte al compito di nutrire una folla nel deserto e propensi a rimandare tutti a casa, non è: Va bene, ora ci penso io, ma «Dategli voi stessi da mangiare». Qui sta l’insegnamento. Equivale a dire: non valutate con il buon senso, basandovi sul calcolo delle vostre forze. Certo, con quel metro di giudizio è impossibile nutrire non dico una folla, ma neppure quattro o cinque persone: ma che siamo noi per arrogarci il diritto di stabilire cosa è possibile e cosa non lo è? Non siamo forse nati dal nulla e non certo in base al calcolo delle nostre forze o a quelle dei nostri genitori? Se non c’è fede nel fatto che dal­l’impossibile all’uomo scaturisce il possibile a Dio, che fede è mai la nostra? Fede è credere nella fattibilità di quello che la realtà ri­chiede in questo momento, anche se non collima con quello che io posso fare in questo momento con le mie sole forze.

Gesù non invoca la manna dal cielo. Usa quello che c’è sulla terra: ogni cosa che c’è viene originariamente da Dio, e quindi quello che c’è è quello che ci deve essere, avendo fede nella natura originaria di ogni cosa. Non c’è nulla da aggiungere o da togliere. Tratta quei pesci e quel pane per quello che sono: cose di Dio, parte del corpo di Dio, che è ciò che ha. Leva gli occhi al cielo, perché il cielo abbraccia ogni cosa e la fa risaltare per quello che è; li bene­dice, li ringrazia di esserci e di essere cibo; quindi li spezza e li distri­buisce. Lo fa non perché è dotato di speciali poteri, ma perché rico­nosce nel pane e nel pesce la natura inesauribile della realtà che si manifesta lì, nel limite del pane e del pesce. Prefigura così la cena eu­caristica, in cui riconosce nel pane e nel vino il proprio inesauribile corpo e sangue e proclama che è per tutti: il corpo indivisibile di Dio è inesauribilmente presente.

I discepoli di Gesù non compresero cosa stava loro dicendo con le parole «Dategli voi stessi da mangiare», e risposero nel modo più convenzionale. Non compresero allora, né compresero all’Ultima Cena: ma, pur non comprendendo, ci danno da mangiare loro stessi, attraverso il Vangelo e la loro vita. Questa è la migliore dimostra­zione di come opera la fede, oltre la comprensione. Se nutriamo la nostra vita col cibo della fede che le nostre deboli forze sono alimen­tate dalla forza inesauribile che è Dio, allora diveniamo testimoni di quella forza e nutrimento noi stessi. Noi siamo il popolo ebraico, e i discepoli: mangiamo e, mangiando, diamo da mangiare noi stessi.

Jiso

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