«Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera». Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?».
* Il Cristo che divide
«Pensate che sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione». Le parole di Cristo non lasciano appiglio per alcuna pia interpretazione, come piacerebbe a noi. Sono troppo chiare nella loro severità!
Nella Chiesa cattolica si parla molto spesso del bene che è l’unione e ci si augura che presto anche gli ortodossi e i protestanti ritornino a questa unità conservata nella Chiesa. Il discorso-è bello e piace; senonché queste parole di Cristo suscitano seri dubbi. Abitualmente noi lodiamo l’unione matrimoniale e deprechiamo le separazioni e i divorzi. Ugualmente riteniamo che l’unione all’interno di una comunità religiosa o di persone che assieme compiono un cammino spirituale sia indiscutibilmente un bene. A salvaguardia di questo sono preposte le autorità. Tutto questo ci pare più che encomiabile; senonché, imbattendoci in queste parole di Cristo, ci sorgono dubbi a non finire.
Venendo alla propria persona, ciascuno di noi sogna la sua unificazione interiore ed esteriore, a garanzia di una vita serena e tranquilla. Non pochi compiono pratiche religiose proprio per questo scopo. Tutto ci pare sacrosanto; eppure queste parole di Cristo ci sconvolgono.
Viviamo in un’epoca squallidamente uniforme e monotona. Dal cibo preconfezionato, al vestito in serie, alle risposte del catechismo che per tutti risolvono in modo eguale i quesiti sul mistero dell’esistenza: tutto ci dispensa dal pensare e dal creare in proprio. La pace sembra consistere nella capacità di uniformarsi. Per l’umanità di oggi Gesù di Nazaret è l’autentico «segno di contraddizione» (Lc 2,34). Non c’è dubbio che lo Spirito del profeta Cristo vibri tuttora anche dentro i fenomeni del dissenso che noi reputiamo deleteri, quali i contrasti tra giovani e adulti, la frantumazione delle istituzioni religiose in sette e gruppuscoli. Senz’altro vibra nell’iniziativa di «Green Peace» che disturba la tranquilla escalation degli esperimenti nucleari.
C’è una pace che non è la pace, ma il suo opposto. Come c’è una fortuna che non è fortuna, ma la sua nemica. Noi riconosciamo subito questa falsa pace nel fenomeno che chiamiamo omertà mafiosa. In quante situazioni, proteggendoci sotto mille motivi, anche noi sacrifichiamo i rapporti più veri per non disturbare una pace di comodo! Cristo aveva proclamato sul monte: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). La pace va operata e costruita giorno per giorno, proprio recidendo i tentacoli di tante paci illusorie e di comodo. Cristo divide anche da Cristo, se noi lo intendiamo come un Cristo di comodo, a cui facciamo ricorso per essere garantiti per grazia di ciò che invece dobbiamo ottenere tramite lo sforzo personale. Sì, perché ci sono momenti in cui la grazia è appunto il proprio sforzo; come in altri momenti il vero sforzo personale è affidarsi alla grazia.
«E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?». Nessuno ha la vera fede cristiana finché il Cristo cui fa riferimento è un Cristo per sentito dire da altri, fossero pure missionari o vescovi. Il cristiano che per dare credibilità alle sue opinioni deve ripetutamente citare quello che dice il papa, o foss’anche la Bibbia, ma non sa dar ragione della sua speranza con sue parole, non è testimone di quanto crede. Gesù gli comanda: giudica da te stesso. Per giudicare da se stessi occorre aver reciso tutte le corde che ci tirano di qua o di là. Bisogna essere veramente liberi.
Non esiste altra via al mondo per riconoscere Cristo come Cristo, se non attraverso la testimonianza della propria coscienza. Cristo è Cristo perché la voce più incontaminata e profonda del cuore me lo attesta. C’è qualcosa di Cristo dentro ciascuno che lo rende capace di riconoscere Cristo. Chi non ascolta la sua coscienza, non sa giudicare da sé: quindi non può riconoscere Cristo. Ciascuno deve giudicare da se stesso. Questo è il Vangelo! Finché non saremo così, Cristo continuerà a dividere e tagliare le nostre relazioni intessute col filo della comodità. Forse noi daremo al diavolo la colpa di tutti quei dispetti: del dissenso dei figli, della separazione matrimoniale, della riforma protestante, dello stato di aridità che sperimentiamo nel cammino religioso. Invece è la spada del Figlio di Dio che è in noi, l’immagine di Dio nella quale siamo creati, che il Vangelo risveglia e mette in azione. Taglia ciò che ci trattiene nella dipendenza. Quando ogni legame inquinato di quieto vivere sarà tagliato, allora saremo liberi e disponibili per l’unico vero legame: l’amore. Nell’amore risorgeranno probabilmente tutti i legami di prima; ma saranno nuovi: ciascuno giudicherà da se stesso, mentre con tutto il cuore accoglierà l’altro.
p.Luciano
* Il battesimo di fuoco
Un tempo, quando ancora la guerra, pur nel suo orrore, aveva aspetti umani, era combattimento ravvicinato di uomini, si usava dire che la prima volta che ci si trovava direttamente a portata del fuoco nemico, quello era per ognuno il battesimo del fuoco. Ci sono poesie stupende e pagine memorabili di letteratura che descrivono l’attesa di quel momento, che per tanti è l’ultimo della propria vita: basti pensare a Guerra e pace di Tolstoij. Incombe, in quei momenti, l’atmosfera di attesa ineluttabile e terribile, la certezza che sta per succedere davvero la fine: certezza che è vera per ciascuno di noi, ma che si fa concreta solo per i condannati a morte, per i malati terminali, per chi vive un pericolo mortale. Quella stessa atmosfera percorre le parole del Vangelo di oggi: parole crude di descrizione delle cose come stanno, non parole di speranza e di consolazione. Qui non c’è riparo, non c’è posto dove nascondersi: siamo in quei momenti della vita dove, se vogliamo guardare la realtà in faccia, il fuoco brucia e le ferite si aprono. Se Gesù non parlasse di questi momenti, se non ci si tuffasse dentro direttamente, come ci si tuffa nei’ cavalloni del mare, la religione che egli annuncia non sarebbe vera, sarebbe una panacea che vuol mettere al riparo dalla vita, sarebbe veramente un oppio per la gente. Invece no: addirittura, Gesù afferma che quel fuoco che arde la terra è lui stesso a portarlo, non può essere separato da lui. Quel battesimo del fuoco che la vita prima o poi ci porta a ricevere non è un caso fortuito della vita, che a qualcuno accade e ad altri no: è invece parte della vita stessa, passaggio obbligato. Non solo: a ben guardare, non si tratta soltanto di eventi particolari della nostra esistenza, ma dei pilastri su cui essa poggia, del suo inizio e della sua fine. Infatti, nella vita ci sono due soli passaggi obbligati, per tutti e per tutto: la nascita e la morte. Entrambi sono un battesimo: battesimo come immersione totale e nello stesso tempo come separazione totale. La nascita di ogni essere è il trauma della rottura della condizione prenatale, lo schiudersi di una realtà del tutto nuova e il tuffo in essa. La morte è la cessazione di tutto ciò che fino ad allora abbiamo chiamato vita, l’immersione totale nel nulla di tutto ciò che fino a un istante prima era. Senza nascita e morte, senza entrambi, non c’è vita e non c’è via, non c’è nulla di nulla. Sono i due battesimi universali, battesimi di immersione e di separazione. E se c’è una visione in cui prima avviene la nascita e poi, in seguito, avviene la morte, c’è anche la visione opposta, per cui la separazione avviene prima dell’immersione: prima ci si separa da una condizione, poi ci si immerge nella nuova condizione. La morte precede la nascita, come la notte precede l’alba. Ecco allora che il discorso di Gesù — discorso di guerra, di separazione, di morte — è propedeutico alla pace, all’unione, alla vita: è la grande morte, condizione per la risurrezione: la nascita nuova, l’essere creatura nuova.
Avere il senso religioso della vita significa innanzitutto non equivocare e non ingannarsi a proposito di questi due battesimi: tutto avviene fra il battesimo della nascita e quello della morte, e nessun altro battesimo è possibile senza di essi. Nello Zen si afferma: «Se fra la nascita e la morte c’è Budda, non c’è né nascita né morte». Budda è questa vita, fra la nascita e la morte: vivere questa vita come eternità di vita, vanifica la nascita e la morte come angusti confini, dà loro senso come limiti del contenitore dell’eterno. Nel cristianesimo si afferma: «Cristo ha sconfitto la morte». Questo non vuol dire che non è morto: anzi, Cristo ha sconfitto la morte morendo. Per questo è ansioso di ricevere quel battesimo. Morte è l’altro limite che permette all’eterno di riconoscersi eterno: solo morendo si verfica che morte non è l’opposto di vita, ma espressione compiuta della realtà eterna.
Jiso
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