Sab 29 Set 2007 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

L’abisso

«C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell’inferno trai tor­menti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricor­dati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vo­gliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non ven­gano anch’essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo ri­spose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi».

* Tra paradiso ed inferno

La parabola del Vangelo di oggi, detta comunemente del ricco epulone, «epulone» in greco significa mangione, ci insegna anzitutto che il povero automaticamente è portato in paradiso e il ricco all’in­ferno. In questo passo del Vangelo paradiso e inferno sono compresi dentro il rapporto di causa ed effetto della legge karmica tanto radicata nelle religioni orientali. «Ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali,- ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti». C’è però una differenza im­portante: in questo Vangelo la legge karmica ha una valenza sociale: il ricco viene spogliato delle sue ricchezze e il povero arricchito; nelle religioni orientali invece la legge karmica riguarda l’ambito morale: chi fa il bene riceve bene, chi fa il male riceve male.

«Un giorno il povero morì e fu portato nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto». Il Vangelo non lascia dubbi di sorta: la vita ricca e gaudente genera l’inferno; la vita povera frutta il para­diso. Non c’è spazio per i ricchi dal cuore buono. Un ricco è per sua natura un arricchito, uno che ha sottratto agli altri. Anche lui è nato nudo e spoglio di tutto e soltanto usando del suo ingegno e approfit­tando della sfortunata situazione degli altri si è arricchito.

Questo Vangelo è fondato sulla convinzione che il lavoro del­l’uomo non è finalizzato all’arricchimento individuale, quindi allo stipendio; ma al bene sociale. Il lavoro è opera della forza divina che è nell’uomo: è come il grappolo d’uva per la vite. Questa forza è gra­tuita e anche il lavoro è gratuito. Chi si arricchisce ha corrotto ciò che originariamente è gratuito in qualcosa di interessato.

Questa parabola pone il discorso su che cos’è il paradiso dove è portato Lazzaro e l’inferno dove cade il ricco epulone. È detto: «Tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che da qui vogliono pas­sare da voi non possono, né da costì si può attraversare fino a noi». L’inferno dove è caduto il ricco epulone sembra proprio come l’im­maginazione popolare lo descrive: luogo di tormenti nel fuoco. Ma esiste l’inferno? Non pochi si pongono questa domanda con ansia e incubo.

C’è nella parabola del ricco epulone uno spiraglio di luce che il­lumina l’inferno: non è quel luogo di desolazione che noi immagi­niamo, se il ricco epulone rimane capace di desiderare il bene dei suoi fratelli. «Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano an­ch’essi qui». Se nel cuore di chi cade all’inferno sorge un pensiero di carità, l’inferno non è più l’inferno.

Ma c’è l’inferno? Quanta ansia ha messo nel cuore delle persone questa domanda! Nel Vangelo Cristo afferma che coloro che non hanno aiutato i più piccoli quando hanno fame, sete, o sono malati, carcerati, senza un tetto, se ne andranno al supplizio eterno (Mt 25,40). Altre volte parla del fuoco della Geenna, la discarica di Ge­rusalemme, dove vanno a finire coloro che maledicono il prossimo. È meglio, insegna, perdere un occhio, o un arto, piuttosto che «tutto il corpo vada a finire nella Geenna» (Mt 5,29-30). Sembra indubbio che Gesù abbia creduto nell’inferno come situazione di sofferenza riservata a coloro che non amano.

Eppure sulla croce, prima di morire, Cristo emise un forte grido: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Può andare all’inferno chi uccide Dio perché non lo sa? L’uomo può comprendere fino in fondo la portata del male che compie? E se lo comprende, è capace di agire secondo quello che comprende, op­pure spesso è travolto da qualcosa di più forte di lui? Che cosa sono quei demoni che possiedono tante persone che Cristo sana, se non la personificazione della forza negativa che è in noi? Può Dio, la fonte di ciò che esiste così com’è, condannare una sua creatura all’inferno, luogo di tormenti eterni? Ci potrebbe essere il paradiso, se anche soltanto un uomo ne rimanesse escluso, condannato all’inferno? Po­trebbe Cristo fare festa se anche un solo uomo non fosse salvato dalla sua croce? Potrebbero i santi cantare in paradiso, se anche sol­tanto un uomo come loro stesse piangendo all’inferno?

Eppure il Vangelo che narra la misericordia infinita di Dio an­nuncia pure l’inferno, dov’è pianto e stridore di denti. Proviamoci a non isolare i due annunci e ascoltiamoli come un solo Vangelo, senza slittare nella sola misericordia che tutti salva a facile prezzo, né nel solo incubo dell’inferno per i nostri peccati. Tra le sponde dei due annunci si apre la via, che è una. E’ la via del massimo sforzo, proprio perché tutto è misericordia. E’ la via della misericordia, pro­prio perché di tutto renderemo conto. Sotto la volta sconfinata del cielo ogni fiorellino è tutto se stesso!

p.Luciano

* Se non ascolti

Devo ammetterlo: questo brano di Vangelo mi è duro da mandar giù. È un boccone che mi va di traverso, mi resta in gola e non va né su né giù. Farei a meno volentieri di affrontarlo, ma proprio per que­sto non posso far finta di niente. Provo ad assaporare, allora, l’amaro boccone. Partendo da una constatazione: un discorso sull’inferno lo si fa, di solito, stando fuori dell’inferno. Che mi guidi il pudore, al pensiero della sofferenza di chi all’inferno c’è per davvero.

Ciò che questo brano di Vangelo deve suscitare non è tanto la paura dell’inferno e la speranza del paradiso, quanto una compren­sione della natura del meccanismo che conduce all’inferno e al para­diso. Né si tratta di disquisire sul fatto se paradiso e inferno esistano davvero: basta dare un’occhiata in giro perché tramonti ogni dubbio sull’esistenza dell’inferno: e se c’è l’inferno, c’è pure il paradiso. Ma la parabola raccontata da Gesù ci fa comprendere qualcosa di più importante e utile per la nostra vita. Mi aiuto, nell’analisi, anche con gli strumenti della visione del buddismo, che è molto acuta nel­l’osservazione dei meccanismi che regolano le vicende del nostro esistere.

Utilizzando le categorie espressive proprie del suo tempo e della sua terra, Gesù afferma che la vita non è un episodio individuale, cir­coscritto a ciascuno e isolato fra nascita e morte: è invece un’inter­connessione senza confini di tutto con tutto, per cui ogni esistenza individuale è comunicante con tutte le altre e all’interno di ogni esi­stenza passato, presente, futuro si producono influenzandosi senza sosta. Ogni atto, sia esso fisico o mentale, è un’onda che viaggia al­l’infinito, prodotta da altre onde e producendone altre ancora. Da questo flusso incessante non si scappa, perché esso è la vita, e non c’è altra vita fuori di esso. Questa legge non è un’invenzione ma una constatazione: infatti la ritroviamo identica, enunciata ovunque, nei testi buddisti come nella Bibbia: «Chi ha orecchie ascolti: se uno mette in prigionia andrà in prigionia; se uno uccide di spada, deve es­sere ucciso di spada. In questo sta la costanza e la fede dei santi» (Ap 13,9-10). Non si tratta di destino o di fatalità, ma di consequenzialità. P inevitabile: se al godimento del ricco ha corrisposto direttamente la sofferenza di Lazzaro, al bene di Lazzaro corrisponderà la soffe­renza del ricco. Nessuno può farci niente. Questo meccanismo ci ap­pare tremendamente impietoso, ma è né più né meno che un mecca­nismo, funziona così e basta: è come quando muoviamo un piede, e diamo un calcio a un sasso: il sasso, colpito, si sposta in relazione al colpo ricevuto.

Allora inferno e paradiso non sono castigo e retribuzione che piovono dall’alto, dall’esterno di me: sono invece il prodotto conse­quenziale e inevitabile che si sviluppa dall’interno della mia vita, del mio modo di agire, di pensare, di essere. Dice san Paolo:

«A me poco importa di venir giudicato da voi o da un consesso umano; anzi, io neppure giudico me stesso, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore!» (1Cor 4,3-4).

Il Signore che giudica, il Dio che investiga le reni e il cuore, non è un personaggio esterno alla mia vita, che mi osserva e mi giudica da fuori: è intrinseco alla mia vita, è dentro di essa, e da dentro la mia vita produce il giudizio su di essa.

Però, questo non deve paralizzarci dal terrore. Conosco il mec­canismo, me lo rivelano le scritture di ogni tradizione religiosa, Mosè e i profeti, Gesù stesso e Budda. Ma ignoro completamente le ramificazioni, gli influssi, le interferenze e i criteri che costituiscono l’infinita trama delle cause e degli effetti. Il compito della religione non è quello di soppesare continuamente i possibili effetti delle mie azioni, per evitare quelle che potrebbero condurmi all’inferno e compiere quelle che dovrebbero portarmi in paradiso. Lo scopo della religione non è di andare in paradiso e di evitare l’inferno.

Piuttosto, accettando il fatto che c’è il meccanismo per cui ogni cosa produce i suoi effetti e riconosciuto che quel meccanismo è il movimento stesso della vita, la religione è l’atteggiamento esisten­ziale che mi fa comprendere che ogni cosa che incontro è la mia vita. All’inferno, è la mia vita; in paradiso, è la mia vita. Ci sono situazioni in cui, come il povero ex-ricco epulone, nessuno può fare nulla per me, neppure darmi una goccia d’acqua o una parola di consolazione. In quelle condizioni a nulla serve analizzare i motivi per cui sono fi­nito lì: anzi, venirli a sapere è solo fonte di maggior dolore, perché quella tardiva conoscenza non mi può più aiutare, come Lazzaro non può aiutare il disgraziato. L’unica cosa è passarci attraverso. Accet­tare effe quella è la condizione della mia vita, e starci dentro. Non cesserà la pena, ma almeno avrò deposto quella parte del fardello che deriva dall’agitarsi scomposto, dal voler essere altrove.

«Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi». Se non ascoltano: la questione è tutta qui. Se non siamo capaci di ascoltare con le nostre orecchie la legge della vita che parla da dentro la nostra stessa vita, nulla ci potrà con­vincere, perché nessuno può vivere al nostro posto neppure un istante della nostra vita. Qui risiede il fondamento della fede: nel sa­per ascoltare la voce che parla dentro la nostra vita, e non nel cer­care il paradiso e nell’evitare l’inferno.

Jiso

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