Sab 27 Ott 2007 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

La spiga vuota sta diritta

Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pre­gare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uo­mini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Di­giuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a diffe­renza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».

* Secondo l’uomo e secondo Dio

La parabola del fariseo e nel pubblicano è senz’altro una perla nel Vangelo. In un modo molto vivido annuncia che, senza l’umiltà del cuore, ogni cammino religioso è deleterio e squallido. In un modo molto vivido, perché i due protagonisti della parabola col loro comportamento evidenziano molto bene che cosa sia la super­bia e che cosa l’umiltà. Il fariseo nel mondo ebraico era per eccel­lenza il laico religioso, colui che conosceva la sacra Scrittura quasi a memoria, colui che osservava la legge religiosa e civile fino al detta­glio. Si direbbe: uno che viveva solo per la religione e per la gloria di Dio! Il pubblicano invece era l’esattore delle tasse. Tale mestiere era affidato dall’autorità statale a soggetti noti per la loro prepo­tenza, al fine di garantire il successo nel riscuotere il denaro. Ai pubblicani era permesso esigere di più del dovuto, come loro pro­pria rimunerazione: erano quindi una categoria mafiosa ufficial­mente riconosciuta.

L’umiltà è una virtù: quindi è delle persone religiose; la superbia è un vizio: quindi è dei mafiosi. Così riflettiamo noi; ma il Vangelo di oggi ci rovescia tutte le carte in tavola. Nella parabola chi pecca di superbia è il religioso fariseo, mentre chi abbassa il capo in umiltà è il mafioso pubblicano. Il fariseo e il pubblicano abitano dentro di noi e sono comportamenti della nostra vita. A volte ci atteggiamo da persone religiose, ma di fatto siamo superbi e assomigliamo al fari­seo. Altre volte al contrario ci sentiamo a pezzi: avvertiamo il biso­gno di abbassare gli occhi e batterci il petto. In quei momenti ci pare di essere lontani da Dio, ma, come il pubblicano, Dio ci accoglie pro­prio perché non ci mettiamo nessuna maschera, nemmeno quella di essere un buon cristiano.

Dio vede la realtà, in particolare la religione, in modo diverso dal nostro. Per l’uomo la religione è la via attraverso cui egli cresce spiri­tualmente, si avvicina alla perfezione, accumula i meriti per il paradi­so, raggiunge la pace interiore. In altre parole per l’uomo la religione è un rivestirsi di cose buone e sante, è un migliorare se stesso, è un ec­cellere nel bene. Per l’uomo la religione è uno stare in piedi davanti a Dio. «Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le deci­me di quanto possiedo». Le decime erano una tassa pagata all’istitu­zione religiosa, l’equivalente dell’attuale otto per mille.

Ma Dio vede in un altro modo. Per Dio la religione è un chinare il capo riconoscenti perché tutto ci è stato dato; ed è un battersi il petto, consapevoli di essere sempre debitori verso la vita, perché non la viviamo con la generosità con cui essa si dà a noi. Per Dio la religione è un togliersi le maschere. «Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». Per Dio la religione è vivere in umiltà: umiltà non come virtù che, alla fin fine, accresce­rebbe i gradi della nostra santità; ma semplicemente come essere ciò che si è, accogliendo religiosamente se stesso e i propri limiti. La persona falsamente umile desidera progredire in umiltà; la persona veramente umile nemmeno pensa all’umiltà, ma semplicemente, così com’è, cerca Dio. Come una mamma non si dà pensiero se sia degna o indegna di fare la madre: fa la madre il meglio possibile, im­parando dai suoi stessi sbagli, perché i figli ne hanno bisogno e basta. E dopo aver fatto la madre con tutta se stessa, non si dà alcun voto!

La Chiesa e le religioni del mondo cadono ripetutamente nell’at­teggiamento del fariseo. Fondamentalmente il fariseo è uno che da solo si giustifica davanti a Dio: si critica anche, ma immediatamente si giustifica. Dice di riconoscere i suoi errori, ma lo fa soltanto per mettere più in evidenza i suoi meriti. Il fariseo ha verso la vita un at­teggiamento da astuto: fa il furbo e lo fa perché tiene le distanze dalla vita stessa. Il fariseo è uno che presume di diventare un uomo perfetto, senza dover toccare il fondo della condizione umana. Il fa­riseo è uno che, nonostante le prove della vita, non matura mai.

L’umiltà è l’atteggiamento religioso che comunica col cuore di Dio e rende giusti al suo cospetto. Rende infatti uguali al Figlio di Dio, umile e mite di cuore (Mt 11,29). Umile è Dio, che fa amicizia cogli umili, anche se atei e peccatori; ma disdegna i superbi, anche se pii e religiosi. Un proverbio orientale dice: quando le spighe di riso chinano il capo sotto il peso dei chicchi maturi, quella che si fa ve­dere diritta sopra tutte le altre è la spiga vuota.

p.Luciano

* Crea in me, o Dio, un cuore puro

«Se aveste fede quanto un granellino di senapa…». «Alzati e va’: la tua fede ti ha salvato…» . «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, tro­verà la fede sulla terra?…». La liturgia della Chiesa cattolica ci ha presentato uno di seguito all’altro tre passi del Vangelo in cui la pa­rola chiave è fede: Gesù la chiama in causa, la rivela, la interroga di­rettamente, in ognuno dei brani di Vangelo che abbiamo letto le scorse domeniche. Anche se nel Vangelo secondo Luca fra il se­condo e il terzo brano c’è un altro testo, di carattere escatologico, mi pare che leggere uno dopo l’altro questi tre passi che parlano della fede sia molto opportuno. C’è una consequenzialità interna che lega e unifica i tre brani: il primo indica la natura della fede; il secondo ri­vela il funzionamento della fede; il terzo interroga la prospettiva della fede. Una consequenzialità che sfocia naturalmente nel Van­gelo odierno, che suggella il discorso e lo riassume in un tutt’uno: la realtà della fede espressa senza nominarla. Nella semplicità imme­diata della parabola dedicata a coloro che presumono di essere i giu­sti e disprezzano gli altri, è contenuto tutto il discorso della fede, con tale efficacia che non c’è bisogno di aggiungere altro.

La fede è l’accettazione del limite come via che conduce oltre il limite. Il fariseo della parabola non è uomo di fede, perché il suo modo di vedersi e di accettarsi non lo proietta oltre se stesso, ma lo lascia lì, ad accontentarsi dei suoi miseri meriti. Certo è religioso e ringrazia Dio, ma mentre ringrazia si rimira allo specchio, e il suo ringraziamento è sfiatato, senza respiro. Fra accettarsi e accontentarsi c’è una differenza come dal giorno alla notte. li fariseo della pa­rabola, cioè io quando mi accontento di me e mi compiaccio della mia piccola bontà, si intontisce e si addormenta nel tepore della sua cuccia, dal cui buco della serratura crede di vedere il panorama in­tero della vita. Il modo che ha di accettarsi, basato sul confronto e sul paragone, non lo proietta oltre i suoi limiti, ma lo lascia lì a intor­pidire. Il pubblicano, invece, cioè io quando vedo i miei limiti per quello che sono e mi sgomento della mia debolezza, accettando se stesso, si vede nudo e senza alibi: il freddo di quella visione lo pun­gola e lo risveglia, gli fa balzare il cuore oltre se stesso. È dalla vi­sione della debolezza che si trae la forza. «Quando il vero modo di essere non ha ancora permeato il proprio corpo e spirito, si ritiene che esso già sovrabbondi. Quando invece il vero modo d’essere riempie il proprio corpo e spirito, allora si comprende che non ha fine».’ Se dal­l’accettazione dei propri limiti si origina lo slancio nell’illimitato, al­lora quell’accettazione è fede, è risveglio. Se dall’accettazione dei propri limiti si ricava soddisfazione e stasi, allora quell’accettazione è un veleno, è il colmo dell’illusione.

Chi si trattiene dall’accostarsi a Dio, dall’affidarsi al cammino re­ligioso perché si ritiene indegno, sembra una persona umile, ma in realtà pecca di superbia: perché si giudica da se stesso, applicando un metro di valutazione comunque egocentrico, e perché confessa impli­citamente di attendere un giorno in cui sarà degno, in cui sarà all’al­tezza, presumendo che quel giorno verrà. Quel giorno, invece, non verrà mai, perché chi mai potrà ritenersi degno a buon diritto? Men­tre è nel sapersi indegno ma ciononostante, anzi proprio per questo, spingersi oltre affidandosi, accostandosi a Dio, che consiste l’atto del­la fede. Tutti vediamo i nostri limiti, ed essi ci rendono insoddisfatti: ma chi si accontenta della propria insoddisfazione è un falso umile, che acquieta con artifici il dolore di sapersi limitato. Chi invece accet­ta come inevitabile compagna l’insoddisfazione di sé, e perciò si apre alla fede, che apre il cammino oltre se stessi, è il vero umile che, re­stando se stesso, guarda in faccia senza filtri la propria realtà.

«Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi…
Ma tu vuoi la sincerità del cuore e nell’intimo
mi insegni la sapienza…
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo…
poiché non gradisci il sacrificio
e, se offro olocausti, non li accetti.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore affranto e umiliato,
Dio, tu non disprezzi» (Salmo 51).

Il pubblicano dal cuore contrito sa di non essere nulla. Sa di non contare nulla, di non valere nulla, di essere un soffio di polvere in un turbine di vento: non ha che il senso del suo limite da offrire, non le sue opere di bene, non le sue pratiche impeccabili, non la sua sete di spiritualità. Questo è il timore di Dio: non la paura della punizione, ma il senso della propria impotenza, offerto. Il pubblicano è il vero servo inutile: non ha nulla da guadagnare e porge a Dio con un in­chino queste sue mani vuote che sono il suo unico vero bene.

Jiso

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