Sab 10 Nov 2007 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

Divenire l’essere

«Gli si avvicinarono poi alcuni sadducei, i quali negano che vi sia la ri­surrezione, e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha pre­scritto: Se a qualcuno muore un fratello che ha moglie, ma senza figli, suo fratello si prenda la vedova e dia una discendenza al proprio fra­tello. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette; e morirono tutti senza lasciare figli. Da ultimo anche la donna morì. Questa donna dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito, e nemmeno possono più morire, per­ché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono fi­gli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe.».

* La visione dell’eschathon

Il cammino dell’anno liturgico si conclude fra tre settimane e il messaggio dei Vangeli di queste ultime domeniche assume un tono decisamente escatologico. Eschaton, nella lingua greca in cui sono scritti i Vangeli, significa discorso delle cose ultime o, meglio, dell’a­spetto ultimo delle cose. Siamo nella stagione in cui le foglie degli al­beri assumono il loro ultimo aspetto: si colorano di giallo, di rosso o di marrone e poi, danzando nel vento, ritornano alla madre terra da cui provengono. Eschaton è appunto questa vocazione a far ritorno, vocazione comune a tutte le esistenze. Gli animali come i vegetali fanno ritorno al nulla e lo fanno, a differenza dell’uomo, con molta compostezza. Gli uccelli si ritirano chissà dove, e trapassano in silen­zio. L’uomo è dotato di intelligenza e proprio ciò lo invischia in mille ragionamenti che rendono complesso e confuso quello che per gli al­tri esseri viventi è provvidenza naturale. Il racconto, probabilmente inventato, dei sette fratelli che, in ordine di età, sposano successiva­mente la stessa donna e muoiono è un esempio di quanta confusione getti sull’aspetto ultimo della vita proprio l’attaccamento alla vita stessa.

Perché l’uomo, che pure proviene dal nulla, cresce dimentico di dover morire? Perché di fatto si comporta come se potesse conti­nuare a svilupparsi all’infinito senza mai fare ritorno? Anche come membro della società l’uomo si comporta così, forse in un grado an­cora più vistoso: pensa che il suo progresso non abbia limiti e possa accumulare guadagni su guadagni senza conoscere perdita. Al punto che ogni crisi economica è interpretata come regresso o comunque fattore negativo. Ma a un certo punto la morte si affaccia e pone la domanda: Oh uomo! conosci il senso ultimo del tuo esistere? Ogni capello che cade, ogni nuova ruga che solca il volto, ogni malattia cronica che compare senza alcuna intenzione di andarsene, ogni fi­glio che parte da casa, ogni nipote che nasce, anche una foglia secca che cade a terra, tutto ripropone quella domanda. La domanda preme e l’intelligenza si inerpica per difendersi. Forse fa ricorso a ri­sposte imparate a memoria e tampona la pressione della domanda. Risponde che dopo questa vita ce n’è un’altra che è appunto la vita che noi abbiamo sognato, senza ottenerla, su questa terra. L’intelli­genza vorrebbe convincersi e convincere che, dopo tutto, non si muore; anzi, dopo la morte noi potremo soddisfare ciò che su questa terra non abbiamo potuto. Per molti il desiderio del paradiso altro non è che la sublimazione della loro non accettazione della morte.

Il Vangelo non fa ricorso a queste trovate! L’uomo muore real­mente e quello che era non è più. L’eschaton non è il riprendersi la vita di, prima, ma è invece la risurrezione che si attua appunto mo­rendo a ciò che si era prima. L’eschaton è un risorgere nuovo, non un risorgere vecchio. Il paradiso, a cui noi spesso facciamo riferi­mento, è un risorgere vecchio: parliamo del paradiso come espe­diente per abbellire la morte e renderla accettabile. «Stolto! Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco» (1Cor 15,36-37).

I sadducei pensavano che il futuro fosse la ripetizione del pre­sente e quindi erano impediti a credere nel futuro come risurrezione. Chiesero a Gesù: «Questa donna dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Come è goffo il futuro, quando per la nostra confusione e i nostri attaccamenti è pensato come la continuazione del presente o la reincarna­zione della vita di adesso! Come è senza senso pretendere di trat­tare il proprio futuro senza esaurire il cammino del presente! Può un seme produrre il grande albero senza morire sottoterra? Nella risurrezione si entra affidandosi con semplicità alla morte che si at­tuerà in grado definitivo il giorno che emetteremo l’ultimo respiro, ma che è già in atto ora: ogni minuto che passa è un minuto che muore!

«I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della risurrezione dai morti, non pren­dono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio». L’angelo, nella comprensione biblica, è un individuo limpido, senza il peso della dualità; per questo è il messaggero della volontà di Dio. Nella risurrezione saremo uguali agli angeli, perché ognuno di noi non sarà più condizionato dal suo aspetto fenomenico e mutevole, ma manifesterà quello eterno, quello scaturito dalla mente del Crea­tore e riportato al suo splendore originario attraverso la croce di Cri­sto. Ciascuno avrà il suo volto autentico. Ora lo crediamo nella fede, vedendo oltre l’offuscamento del dubbio e del peccato! «Ora ve­diamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia» (1Cor 13,12).

Sarà il mio volto assoluto: senza il peso dei rapporti che ora in­vischiano e trattengono. Anche il bambino morto di fame avrà il suo volto assoluto, quello pensato da Dio, nutrito con affetto dalla società nuova della risurrezione. Credere al punto che ciò che è cre­duto si avvera, attraversando la morte, è la fede. Vivere di questa fede è la religione: è divenire l’essere.

p.Luciano

* L’altra visione: io divento quello che sono

Si dice spesso, non senza motivo, che lo Zen è la religione del presente, del qui e ora sperimentato nella sua profondità incommen­surabile, e che il Vangelo è la religione che annuncia la certezza del­l’eschaton, della vicinanza della pienezza finale, a portata di mano, ma futura rispetto a un presente contradditorio e soggetto al limite. Questo modo di intendere, qui esposto in modo molto schematico, è veritiero, nel senso che dice senz’altro un aspetto vero: come tale non va scartato ma tenuto vivo proprio per alimentare il significato dell’incontro fra lo Zen e il Vangelo.

Nel brano di Vangelo di oggi queste due visioni, quella dell’eter­nità del presente e quella della certezza della speranza futura, sem­brano abbracciarsi e fondersi in un’unica comprensione. È un brano molto importante, che i tre Vangeli sinottici riportano in modo quasi identico: credo sia utile verificare di persona le tre letture, che tro­viamo, oltre alla presente, in Mt 22,23-32 e in Mc 12,18-27.

Gesù parla con persone che non credono alla risurrezione: o me­glio, con persone che, pensando che la risurrezione sia una sorta di proseguimento, su di un altro piano, delle condizioni terrene, non credono a una cosa del genere. Ebbene, Gesù dà loro ragione: la ri­surrezione non è quella cosa lì. È sintomatico che, interrogando Gesù sulla risurrezione, ne presentino loro stessi, che non ci cre­dono, una visione consolidata. Non chiedono a Gesù cosa è la risur­rezione nella sua visione, ma presentano la loro propria visione come fosse l’unica possibile. In altre parole, credono che la risurre­zione sia una determinata cosa e poi affermano di non credere in quella stessa determinata cosa! Questo non ha niente a che fare col credere o non credere nella risurrezione: è solo il credere o meno a un’opinione circa la risurrezione. Quanto spesso facciamo così anche noi: crediamo o non crediamo a un’opinione riguardo a qualcosa, e chiamiamo questo credere o no in quella cosa.

Gesù li sbarazza prima di tutto di quella falsa opinione. È utile sapere che i sadducei rappresentavano quasi esclusivamente l’aristo­crazia sacerdotale, sono loro che condanneranno Gesù, e accoglie­vano soltanto le leggi scritte, ovviamente ebraiche, le quali non par­lavano di risurrezione. Gesù utilizza a sua volta le Scritture, parla cioè il loro stesso linguaggio per farsi capire.

«I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito». Così Gesù nega in­nanzitutto che risurrezione voglia dire riprendere le fila della pro­pria vita, su un piano superiore, là dove la morte le aveva spezzate. Quell’altro mondo è un tutt’altro, non è il proseguimento di questo. La parola greca tradotta con mondo è «aion», letteralmente eone, che significa tempo, eternità, età. La parola tradotta con altro è, più propriamente, quello: questo e quello. È come se fossero messi a confronto non tanto due mondi contigui, ma due tempi che non sono l’uno susseguente all’altro, ma sono questo tempo e quel tempo. Ri­leggiamo le parole di Gesù, letteralmente tradotte dal greco: «I figli di questo tempo prendono moglie e vanno a marito; invece quelli rite­nuti degni di partecipare a (ottenere) quel tempo e la risurrezione, quella dai morti, né prendono moglie né vanno a marito». Ecco, è a portata dell’uomo la dignità di prendere parte a un tempo che è tutt’altro da quello che appare essere il tempo, un periodo limitato in cui si prende moglie o marito e che poi finisce con la morte; in­vece un tempo che è quello in cui «…neppure possono morire an­cora; infatti sono come angeli, e sono figli di Dio, essendo figli della risurrezione».

Sono come angeli: cosa vuol dire essere al modo come gli angeli sono? Gli angeli sono gli esseri al cospetto di Dio, sono coloro che vedono Dio e ne annunciano la volontà: essere al modo degli angeli significa essere come chi è sempre di fronte a Dio. Avere la visione di Dio non significa vedere un’immagine di Dio: vedere Dio è essere visti da Dio. Come Zaccheo, nel Vangelo della scorsa domenica, che è visto da Gesù perché va per vedere Gesù. Chi vede Dio non ha nes­suna immagine di Dio davanti agli occhi. Per non avere nessuna im­magine di Dio davanti agli occhi, soprattutto davanti agli occhi della mente e del cuore, è necessario morire: solo quel tuffo nel vuoto, che è la morte, estingue ogni immagine, anche la più sottile. Per vedere Dio bisogna morire.

Infatti, che parole della Scrittura usa Gesù per spiegare che an­che la Scrittura antica cara ai sadducei indica la realtà della risurre­zione? Usa le parole dell’Esodo, là dove è detto: «Io sono l’Iddio di tuo padre, l’Iddio di Abramo, l’Iddio di Isacco e di Giacobbe» (Es 3,6). Tuo padre, Abramo, Isacco, Giacobbe: sono tutti morti. Ma al­lora Dio è il Dio dei morti? Se guardiamo ai morti, se guardiamo alla morte con gli occhi della vita, allora non c’è che la morte e Dio sa­rebbe il Dio dei morti. Ma se guardiamo a Dio, al Dio il cui nome è Io sono (Es 3,14), allora in lui tutti sono. In Dio, tuo padre, Abramo, lsacco, Giacobbe, sono, ora. «Dio non è dei morti, ma dei vivi: tutti in­fatti per lui vivono». Tutti sono per Dio, ora, perché Dio, l’essere che è, è ora: ma non tutti sono figli di Dio: solo coloro che, sapendo di es­sere per Dio, guardano verso Dio, cercano la visione di Dio. La visio­ne di Dio è vedere Dio essendo visti da Dio: è l’altro modo di vedere. Non è il tempo che cambia, ma la visione: la visione di ciò che appare diviene la visione di ciò che è. Allora questo tempo diviene quel tem­po, questo ora diviene quell’ora, questa vita morta diviene questa vita viva. È lo stesso mondo, eppure è tutt’altro, davvero l’altro mondo. lo, che sono per Dio, riconosco me stesso, degno dell’altro mondo, e divento davvero figlio di Dio: divento quello che sono.

Jiso

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