Sab 1 Dic 2007 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà presa e l’altra lasciata.

Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà».

* Vangelo dell’inizio: vivere appieno il tempo

Nella prima domenica dell’anno liturgico viene annunciato il vangelo dell’inizio che indica la retta partenza del cammino, come la segnaletica al bivio fra più strade. Il vangelo dell’inizio, annunciato all’inizio dell’avvento, è l’accoglienza religiosa del tempo reale in cui scorre la nostra vita, profondamente convinti nella fede che esso è l’ambiente veramente adatto, perché è quello che ci è dato, ove in­contriamo Dio.

Il tempo, con il suo scorrere di vicende che si susseguono al­l’impazzata, matura gradualmente nell’uomo la capacità di filtrare ciò che è autentico. Grazie alla distensione del tempo l’uomo può pellegrinare, passo dopo passo, al significato essenziale dell’esiste­re e unificare nell’uno la sua esperienza frantumata. Grazie al tem­po l’uomo può trovare Dio restando uomo, senza che l’illimitatezza di Dio schiacci il suo limite umano. Ugualmente il tempo è il filtro che dosa l’irrompere di Dio nella storia, velando e svelando la luce divina affinché la vista dell’uomo non resti accecata e il cuore del­l’uomo non cada in superbia per l’improvviso raggiungimento della verità ultima. Il tempo mutevole è amico del vero cammino del­l’uomo. Il tempo è il tergo di Dio che Mosè poté vedere e restare vivo (Es 33,18-23).

Il tempo è l’ambiente dell’operare del Cristo: nella parabola del fico sterile egli impedisce al Padre di condannare l’uomo e chie­de solo tempo per zappare e concimare il terreno, affinché l’albero dia frutti. Il tempo è l’ambiente della redenzione. Fuori del tempo non esiste cammino cristiano. Nel tempo si attua l’avvento: l’incon­tro di Dio e dell’uomo. Solo poggiando saldamente i piedi sulla ter­ra, l’uomo può scrutare il cielo. Solo pellegrinando nel tempo l’uo­mo entra nell’eternità. Solo chi accoglie fino in fondo questa vita ottiene la vita eterna. Baciare la vita è la via che conduce a Dio, principio della vita.

«Come fu ai tempi di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uo­mo». Non esiste un quando o un come particolare. Sempre è quel quando e quel come; sempre è avvento e pienezza del tempo. Il Si­gnore passa nel nostro tempo che passa! Ogni passo, ogni istante lo contiene. «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nulla di eclatante, come si trattas­se di un’aspettativa conclamata, tipo quella che noi nutriamo attor­no all’anno 2000 ormai alle porte. Fu semplicemente una notte come tutte le altre, mentre i pastori vegliavano il gregge nei campi e i som­mi sacerdoti dormivano placidamente nelle sontuose stanze del tem­pio. Quel tempo era pieno perché Maria e Giuseppe lo abitavano con la piena consapevolezza che in esso il Signore viene e si manife­sta. È la consapevolezza che anima la Chiesa nella storia.

«State pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio del­l’uomo verrà». L’ora che la Chiesa non immagina spesso è proprio quell’ora che appare meno visitata da Dio. È l’ora dell’umiliazione o del silenzio che purifica la Chiesa se pone la sua aspettativa nella pa­rola e nell’attività. È l’ora della parola e dell’audacia se si limita a starsene tranquilla in disparte. È l’ora precisa che sta vivendo ogni momento, in cui sempre lo Spirito urge a convertirsi. Anche il dialo­go con le altre religioni è quest’ora: è infatti un inoltrarsi oltre le proprie tradizioni assodate e un esporsi alle sfide. L’ora che la Chie­sa non immagina altro non è che l’ora attuale.

«Vegliate dunque»: è il comando del Signore che indica la via della conversione camminando nel tempo, con pazienza e fortezza, facendo urgenza e attendendo, essendo perdonati e perdonando, nella santa compagnia dello Spirito. Il tempo è lo spazio proprio del­la Chiesa. La Chiesa è come la zattera che attraversa il fiume della storia, carica di pellegrini verso il regno di Dio. La zattera ha tutto quanto le è necessario e nulla di più, che la renderebbe lenta e pe­sante. Attraversa la corrente del tempo al soffio dello Spirito, porta­la dalla stessa corrente del tempo! «Vegliate dunque!»

p.Luciano

* Essere tempo

Il tempo, e trama su cui è intessuto sia il Vangelo sia la visione o religiosa dello Zen. Il tempo non è l’oggetto di un’analisi filosofica o conoscitiva, ma il terreno che abbiamo sotto i piedi, in cui si svilupa il nostro vivere e da cui dipende il modo in cui viviamo: forse diremmo meglio affermando che è la materia di cui siamo fatti.

«Si dice essere tempo, per dire che tempo è già di per sé essere, essere è sempre tutto tempo».

Comincia cosí uno degli scritti più famosi e venerati dello Zen, che è una sezione dello Shōbōghenzō (La custodia della visione della realtà autentica), l’opera maggiore di Eihei Do­ghen, il grande maestro Zen giapponese del XIII secolo. La sezione ha per titolo Uji (Essere tempo). Non vi è essere separato da tempo: l’essere non è qualcosa che nasce, si forma, si sviluppa su di un tem­po che preesiste; non c’è tempo separato da essere: cioè un tempo che esiste e scorre separato dall’essere e su cui l’essere va a posarsi per scorrere insieme. Essere e tempo si dan vita l’un l’altro, sono l’u­no la vita dell’altro. Nella visione dello Zen non ha senso dire che io sono nato in questo secolo, se così si intende dire che sono capitato in un tempo che era già strutturato indipendentemente da me. Il tempo nasce con me, vive con me, muore con me. Non mi posso se­parare dal tempo, il tempo non si può separare da me. Essere tempo comprende tutto l’essere, comprende tutto il tempo. Detto in altre parole è il tempo dell’eternità che si avvera nell’ora. Per compren­dere cosa vuol dire essere tempo, per aprirci alla comprensione di una visione della realtà in cui tempo ed eternità non sono in un rap­porto in cui una, l’eternità, comincia là dove termina l’altro, il tem­po, ma inscindibile compenetrazione che ora è, dobbiamo lasciar perdere la nozione convenzionale di tempo cui siamo abituati: dob­biamo scordare una misurazione del tempo secondo cui dal passato, attraverso il presente, si va verso il futuro. Passato presente futuro sono il modo di essere della realtà che si esprime e si realizza ora nella sua totalità completa. È ora che passato, presente, futuro sono veri e attuali. È ora, l’ora del risveglio: questa è la buona novella del buddismo. San Paolo a sua volta ci incita: «E tempo ormai per voi di svegliarvi dal sonno» (Rm 13,11). Però, se pensiamo che affermare: il tempo del risveglio è ora significhi negare passato e futuro, annul­lare la memoria (che è il ritorno all’origine) e l’attesa (la visione), allora non abbiamo compreso cosa vuol dire che essere è tempo. Ora non è, come immaginiamo, una porzione infinitesima di tempo si­tuata fra prima e dopo. L’ora che non immaginate: ecco un’espres­sione che vale per il buddista come per il cristiano. Il tempo del ri­sveglio è esattamente l’ora che non possiamo immaginare, l’ora cui possiamo solo risvegliarci e vivere. È l’ora che non sappiamo ma che stiamo vivendo. La forza di quel non sapere è la stessa che anima il nostro risveglio, è la forza della fede che ci fa vivere ogni istante co­me il tempo in cui tutto il tempo si compie.

Jiso

* Rompere il guscio

La scena che si presenta ai nostri occhi alla lettura di questo pas­so dell’evangelista Matteo ci fa pensare a un dramma che volge al suo epilogo: la fine è prossima, chiari segni premonitori la preannunciano, ma gli uomini non se ne accorgono. È un po’ quanto av­viene quando grandi catastrofi naturali si abbattono su un territorio provocando immani disastri e numerose vittime e la ragione di poi ci fa osservare che una maggiore attenzione, una più accorta opera di prevenzione, avrebbero potuto evitare il disastro.

Anche nella nostra vita accade la stessa cosa quando per esem­pio una grave malattia o la perdita improvvisa di una persona cara ci costringono a guardare la realtà con occhi diversi, maturano in noi nuove consapevolezze, ci fanno giudicare frivole o comunque di scarso valore le cose che prima ci apparivano essenziali. A chi è pro­vato da una grande sofferenza può succedere ad esempio di riscopri­re quella fede che da lungo tempo aveva abbandonato. La catastrofe naturale, così come l’evento doloroso e traumatico che sconvolge la nostra vita, hanno un effetto simile a quello di un suono acuto e improvviso che ci sveglia dal torpore.

Quando viviamo nell’illusione, nel torpore? È difficile dare una risposta: chi sogna non si accorge di sognare; solo quando ci si risve­glia si diventa consapevoli che quello che nel sonno ci appariva reale era in realtà illusorio. Solo chi è già sveglio può scuotere l’altro che sta vivendo il sogno come fosse realtà.

La signora, colta e raffinata, che veste elegantemente, che arre­da con ricercatezza la casa, quando educa i figli facendo loro com­prendere che non devono confondersi con gli altri ragazzi, assumen­do i loro stessi atteggiamenti e vestendosi come loro in modo trasan­dato, sta vivendo nel sogno o nella realtà? La ragazza, per la quale la ricchezza è importante al punto da sposare l’uomo ricco che non ama, vive nel sogno o nella realtà? Prendere il sogno per realtà forse è proprio questo: vivere non uscendo mai da quell’ideale che ci siamo costruito, talmente importante da diventare il punto di riferimento a partire dal quale prendono avvio tutti i nostri valori, il nostro modo di guardare e di vedere la realtà.

Che cosa c’è al di là di quel guscio che abbiamo costruito per noi, al quale ci sentiamo sicuri e protetti, ma che ci preclude la possibilità di entrare in contatto con la realtà vera, quella che è all’esterno? Ciascuno deve scoprirlo da solo, e il primo passo è proprio di rompere il guscio. Certamente ciò è difficile, né può avvenire in modo indolore, ma Gesù stesso ci insegna che «nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo squarcia il vestito e si fa uno strappo peggiore. Né si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano» (Mt 9,16-17).

Annamaria Tallarico

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