Dom 25 Mag 2008 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui

«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

* Il pensiero divino si fa carne: la conviviale via del pane

Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me» (Gv 6,53-57).

Davanti al cibo, il grande sapiente come il bambino mental­mente handicappato, il sano come il malato, il povero come il ricco, l’uomo pio come l’ateo, tutti fanno ritorno da ciò che li divide e con­trappone alla posizione fondamentale in cui tutti sono uguali. Ritor­nando a quel punto e da esso partendo si entra nel regno di Dio che è come un banchetto dove il più piccolo siede al primo posto e dove il Cristo è colui che serve. Allontanandosi da quel punto, tutto si sconvolge: gli uomini diventano nemici fra loro e il Cristo diventa colui che sta dalla parte di un gruppo contro l’altro, come avvenne nelle guerre di religione.

Nel Vangelo è evidente che la spiritualità della tavola, attorno alla quale tutti prendono posto, manifesta e mette in atto l’atmosfera del regno di Dio. Il segno del pane spezzato è fondamentale, prima e oltre tutti gli altri segni. Compiere religiosamente la funzione di ac­cogliere, spezzare e mangiare il pane: questa è la religione che è prima di ogni religione. La mensa è l’altare prima degli altari.

La vita eterna è come il pane: è impasto di infinite energie dell’universo che vengono da oltre ogni tempo e ogni luogo; conflui­scono ora, nella mia realtà, ma scaturiscono da una profondità che tempo e lo spazio non possono contenere. Energie che sgorgano dalla paternità divina, che nel tempo prendono forma plasmate dal Pensiero divino, che sono vivificate dall’alito dello Spirito. Il pane, che nel suo formarsi celebra l’opera divina di tutto l’universo, è poi spezzato, distribuito, mangiato, digerito, assimilato nel proprio corpo, e infine trasformato ancora in energie che fanno vivere l’universo. Il pane è sacramento di quel modo di essere concreto che Vangelo di Gesù annuncia cosi: «Gratuitamente avete ricevuto, gra­tuitamente date» (Mt 10,8).

«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». La fede nel regno di Dio, banchetto del pane che è Cristo, fonda il Vangelo della risurrezione nell’ultimo giorno. All’ultima cena Gesù, spezzando il pane e dando vino da bere, rivelò il suo fermo proposito di «non fare più la cena della Pasqua affinché essa non si compia nel regno di Dio». Né avrebbe più bevuto il frutto della vite «finché non venga il regno di Dio» (Lc 22,16-18). Una madre non si mette a mangiare prima che i figli ritornino dal lavoro o dalla scuola; soprattutto se nel viaggio di ritorno possono incontrare dei pericoli. La sposa può vegliare tutta la notte senza prendere cibo, se lo sposo è a mare per la pesca e il mare è burrascoso. Gesù, risorto dalla morte, non si mette a tavola per mangiare o brindare: perché i suoi fratelli sono ancora smarriti lungo la via della vita, perché ancora devono attraversare la soffe­renza e la morte, perché ci sono bambini che muoiono di fame. Que­sto è il cuore originario del Figlio unigenito del Padre.

La risurrezione è il frutto dell’intenso anelito della vita che, attraversando la morte, continua a vivere oltre le apparenze. Non è la risurrezione intesa come un fatto miracoloso a suscitare la speranza; ma è la speranza forte insita nella vita di ogni giorno che esige e at­tua la risurrezione. C’è la risurrezione perché c’è la speranza capace di operare la risurrezione, radicata nell’amore e nutrita dell’amore. L’amore e fecondo. «Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,24-25). Al banchetto della storia umana, dove sempre è in agguato nel cuore umano la tentazione di chiudere la porta e incominciare a banchettare da soli, fra amici dello stesso clan o partito o cultura o religione, Cristo è colui che guasta la festa privata ed esclusiva. Converte invece al cuore che attende l’altro, con perseveranza, fino all’ultimo giorno quando non mancherà nessuno. Attendendo, prende fra le mani il pane azzimo, il pane del viaggio, lo spezza e lo distribuisce per nutrire il cuore ad attendere tutti, con gioia e tremore. Quel pane che alimenta la capacità di attendere tutti a la sua «carne per la vita del mondo».

«Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto» (1 Cor 15,16). Chi non attende l’altro, il diverso da sé, nemmeno ha nel cuore la materia prima per credere nella risurrezione. Oppure, se parla di risurrezione, si riferisce ancora a sé staccato dagli altri. Per alcuni la risurrezione è ancora il sacro recinto, il paradiso riservato a se stessi, i buoni. La vera fede nella risurrezione nasce solo dal cuore che attende tutti, perfino la conversione dell’inferno in paradiso. Altrimenti, che bisogno ci sarebbe di risorgere, se dopo tutto i buoni e i cattivi rimangono separati in due regni? Se ciascuno ottenesse semplicemente il conseguimento dei suoi meriti? Ma chi crede che l’affa­mato è il suo commensale, non riesce a mettersi a tavola prima che anche lui arrivi. Attende, e attendendo evoca e sucita la risurrezione.

L’ultimo giorno è il tempo secondo la misura di Dio, che non dimentica nessuno. tutto il tempo che occorre per non dimenticare nessuno. Il tempo senza tempo, dell’amore. Tutto è cosi manifesto in un pezzo di pane! Nutrirsi di pane e divenire pane che nutre! Cri­sto è il pane che nutre nell’uomo la capacità di diventare pane. Nu­trirsi di Cristo è partecipare della funzione di Cristo: viverla e testi­moniarla. Il pane: mangiamolo senza fretta, aprendoci alla comu­nione con tutti. Se una briciola cade, chiniamoci a raccoglierla. E’ pane mangiato, sciogliendosi, diventi in noi carità.
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui». Diventiamo Cristo!

p.Luciano

* Mangiare e bere: per cosa ?

La via che il cristianesimo indica all’uomo per partecipare della vita di Dio, per partecipare della vita al modo di Dio, cioè per avere la vita eterna, è quella di mangiare e di bere Dio. Lo Zen indica all’uomo la via per essere Budda nel sedersi in Budda; il Vangelo indica all’uomo la via per essere in Dio nel mangiare Dio. Nel sedersi in Budda, nel sedersi da Budda, l’uomo diventa Budda, diventa ciò che davvero è: non per suo merito, non per suo sforzo, non poco per volta, ma come per simbiosi immediata: rivestito della forma di Budda, è lui stesso quel corpo di Budda in cui si siede. Nel mangiare Dio, l’uomo inghiotte Dio, digerisce Dio, assimila Dio, espelle Dio: tutto il processo del nutrimento che fa sì che il nutrimento divenga corpo e mente di chi lo assume. Non c’è vita senza mangiare e senza bere, non c’è vita che non si nutra. E non c’è nutrimento senza vita: è la vita che nutre la vita. Di qualunque cosa ci si nutra, comunque ci si nutre di vita, quindi è del tutto naturale mangiare Dio perché Dio sia in noi, per essere in Dio. Ma come si fa a mangiare Dio? Cosa vuol dire concretamente mangiare Dio? «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».

Gesù non risponde alla domanda ma, come fa spesso, si mette di fronte alla motivazione da cui scaturisce quella domanda: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». Gesù ribadisce in modo ancora più esplicito che mangiare e bere chi ha in sé la vita eterna è il modo per avere a propria volta la vita eterna. E aggiunge in modo inequivocabile: «Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui». Comprendiamo questa espressione alla luce della Pasqua, così come l’ha celebrata, come l’ha mangiata Gesù. Non fa meraviglia che Giovanni non faccia menzione della cosiddetta istituzione dell’eucaristia, durante l’ultima cena, con il pane e il vino. Gran parte del Vangelo di Giovanni è dedicato ad affermare e a chiarire che la carne di Cristo è vero cibo e il sangue di Cristo vera bevanda: ripeterlo ancora una volta durante l’ultima cena sarebbe un inutile pleonasmo. Giovanni preferisce descrivere la lavanda dei piedi e riferire gli ultimi dialoghi di Gesù e dei discepoli. Anzi, nella descrizione di Giovanni l’unico a cui Gesù dà il boccone durante l’ultima cena è Giuda, «e allora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui» (Gv 13,27): condanna che contiene la sua assoluzione. Ma questo è un altro discorso.

Però, pur se Giovanni non ci parla dell’istituzione dell’eucaristia, dobbiamo farlo noi, con l’ausilio degli altri evangelisti, perché questo ci aiuta a capire cosa vuol dire mangiare e bere il corpo di Cristo. Ascoltiamo Marco: «Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò, lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”. Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti”» (Mc 14,22-24).

«La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» e «Questo è il mio corpo questo è il mio sangue»: la mia carne è il pane, il cibo, il mio sangue è il vino, la bevanda: vero cibo, vera bevanda. Mangiare per essere in Cristo, con Cristo in Dio; bere per essere in Cristo, con Cristo in Dio: non è forse questo che rende il cibo vero cibo e la bevanda vera bevanda? Se mangiamo per nutrirci e ci nutriamo per fare la volontà di Dio, se viviamo non per noi stessi ma per fare la volontà di Dio che ci fa vivere, non è forse tutto il cibo corpo di Dio, non è forse tutta la bevanda sangue di Dio? E l’eucaristia non è forse il segno sintetico e immediato di questo?

Se invece mangiamo solo per saziare gli appetiti dei nostri desideri, se mangiamo solo per il nostro piacere e per il nostro guadagno, allora ogni cibo è cibo che perisce e che conduce alla morte; mangiando infatti ci avviciniamo al giorno della nostra morte. E in questo caso anche l’ostia della comunione è cibo che perisce.

Nello stesso modo, per riprendere il paragone iniziale, se sediamo in zazen non per essere seduti in Budda, ma per guadagnare qualcosa da quello star seduti, allora zazen non è che una delle attività del nostro fare per avere, che, come tutto il resto, non fa che accompagnare il nostro andare verso la fine, quando dovremo abbandonare ogni avere.

«Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me». Per Gesù è chiaro fino in fondo che la sua vita non viene da lui stesso, non è sua, ma è di Dio, che ha la vita, che è la vita: perciò non vive per sé, ma per il Padre. Così anche chi si nutre approfondendo la sua coscienza che il nutrimento è corpo di Dio, in forza di questo vive. Cristo incarna la differenza che c’è fra mangiare per vivere per se stessi e mangiare per vivere per la vita eterna: tutto il Vangelo annunzia questa differenza. Noi abbiamo bisogno di Cristo non perché scende magicamente dentro il pane dell’ostia consacrata, ma perché continua, giorno dopo giorno, momento per momento, a indicarci quella differenza, a spiegarcela: perché è una differenza sottile, che sfugge a ogni normative, e ogni volta abbiamo bisogno, noi uomini e donne, di ascoltarla di nuovo.

Jiso

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