Sab 9 Ago 2008 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

Dopo che la folla ebbe mangiato, subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.
La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».
Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».
Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

* Verso la fine della notte egli venne

Si dice che la notte raggiunga il grado massimo di buio un’ora prima dell’alba, quando la luminosità che il sole lascia nell’atmosfe­ra al tramonto è completamente dileguata. Così è anche il rapporto tra Dio e l’uomo: l’intervento di Dio è vicino quando l’uomo ha toc­cato il fondo e le ultime luci si sono spente. Prima d’allora Dio sem­bra restare assente, anche se l’uomo lo invoca con forti grida. Per­ché? Dove stava Cristo mentre gli apostoli lottavano con i flutti rab­biosi del mare?

«Salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora lassù». Quando Cristo sembra assente, è in preghiera sul monte dell’esistenza, solo, a custodire nel suo cuore quella pace per la quale gli esseri si dimenano nella valle dell’esistenza. Il Figlio di Dio che prega solo sul monte è il tesoro nascosto. Infatti nel suo cuo­re è custodito intatto il Logos: ossia il pensiero originario di tutto ciò che esiste. Forse l’uomo nella mischia della vita perde la memoria della sua bellezza originaria; ma il Logos la custodisce intatta. Quando io ho smarrito me stesso e mi dimeno nell’evanescenza, la memoria del mio vero io è custodita là, nel Logos che prega, solo, sul monte. Rimane a pregare solo, proprio al sopraggiungere della sera, quando le tenebre cominciano a spegnere le luci del giorno; proprio mentre gli uomini si dimenano nelle loro incertezze e ansie. Il Vangelo lo sottolinea: Venuta la sera, egli se ne stava ancora lì

Lo sottolinea, perché è l’opposto del nostro modo consueto di raffi­gurarci ii Figlio di Dio. Per noi egli è colui che come un’ambulanza del pronto soccorso corre qua e là per salvare gli uomini. Noi preti spesso imitiamo questa immagine di Cristo che noi stessi ci prefigu­riamo. Come se il mondo andasse a rotoli senza il nostro pronto soc­corso. Così può dimenarsi la Chiesa, come se fosse lei a tenere in piedi la religione e Dio stesso.

Perché Dio rimane assente, mentre l’uomo si dimena nella bur­rasca della notte? Perché non compie miracoli e non ristabilisce l’or­dine morale nella società degli uomini? Perché Dio tace, al punto che chi vuole dubitare della sua presenza ha tutte le ragioni di que­sto mondo per farlo? Un filosofo disse: Se Dio esistesse e io fossi lui, avrei vergogna di quello che ho fatto! Diceva così davanti alla cata­strofe della guerra. Proviamo lo stesso dubbio anche noi di fronte agli eccidi etnici in Ruanda, in Bosnia ecc. Davanti a questo reale e persistente silenzio di Dio, come sbiadiscono le nostre immaginazio­ni religiose con i santi che appaiono a ogni angolo, statue sacre che lacrimano, prodigi ottenuti con l’acqua di una fonte sacra e svariate altre emozioni religiose! Di fatto è notte e il mare è burrascoso, mentre Dio rimane, solo, sul monte!

L’eucaristia che noi celebriamo nelle nostre chiese a il sacramen­to dell’eucaristia eterna che il Logos celebra sul monte. Il pane euca­ristico che viene conservato nella tenda (tabernacolo) delle nostre chiese e che attende in silenzio di essere mangiato da chi passa ne è il segno visibile. Anche nel buddismo e presente la fede nel Budda eterno che sta, solo, sul monte Sumi che sorge nel bel mezzo dei mil­le mondi, recitando continuamente il sutra della verità. Nella pre­ghiera anche noi saliamo sul monte, soli, e ci uniamo a Cristo che prega. Noi non preghiamo per la brama di ottenere una grazia priva­ta; ma, secondo la Bella espressione del secondo canone della mes­sa, perché compiamo il servizio sacerdotale; ossia ci identifichiamo con Cristo che prega per tutti.

«Verso la fine della notte egli venne verso di loro». Perché Dio si manifesta solo dopo una nottata di sforzi, di sudore e forse anche di lacrime? Dio rimane lasso sulla montagna, solo, come la sorgente del grande fiume che attraversa la valle e la pianura. La vocazione di Dio non è quella di sostituirsi all’uomo; ma di essere la chiara sor­gente che emana l’energia dell’uomo. La vocazione di Cristo non è quella di sostituirsi allo sforzo del discepolo, ma di alimentarlo con il suo corpo dato in cibo e il suo sangue versato in bevanda.

Il cammino religioso non è guadagnare Dio; ma essere figli di Dio. Quando la lotta è stata portata a termine e l’uomo ha esaurito il suo sforzo, allora Dio compare. Era già presente; ma ora si manife­sta all’occhio del discepolo che, purificato dalla prova, lo può con­templare senza insuperbirsi. Se l’occhio del cuore dell’uomo non è ancora purificato e se Dio comparisse all’uomo ogni volta che lui lo invoca con alte grida, probabilmente l’uomo si vanterebbe della sua bravura di saper commuovere Dio. Invece Dio si fa vedere quando l’uomo si a affidato completamente ed a ritornato all’atteggiamento di figlio. Immagino l’abbraccio caloroso di Cristo quando l’uomo, al termine della lotta della vita, purificato dall’imminenza della morte, ritornerà alla semplicità dell’origine!

p.Luciano

* Solo lassù

Tanto l’episodio di questo brano del Vangelo quanto quello im­mediatamente precedente hanno un breve, simile antefatto. Subito prima della moltiplicazione dei pani Gesù si ritirò in disparte in un luogo deserto. Prima di questa scena in cui lo vediamo camminare sull’acqua, Gesù sta a lungo sul monte, solo, a pregare.

Non dovremmo limitarci a considerare la parte appariscente, che colpisce l’attenzione e mette in moto l’immaginazione, e ignora­re la parte che non si nota, perché è incolore e non stimola la fanta­sia: le due parti sono inscindibilmente legate, al punto che si può di­re che Gesù non avrebbe camminato sull’acqua se non fosse andato sul monte, solo, a pregare, e che se non avesse poi camminato sull’acqua non sarebbe prima andato sul monte da solo a pregare. I due fatti fanno parte di un’unica realtà. E questo il motivo per cui l’evan­gelista ce li riferisce scrupolosamente insieme e collegati.

Intendiamoci bene: non è che Gesù ha camminato sull’acqua perché è stato prima da solo sul monte a pregare, né, tanto meno, che a andato sul monte in solitudine a pregare per poi camminare sull’acqua: non c’è fra i due eventi un rapporto consequenziale. Per essere più chiari, non dobbiamo pensare che il camminare sull’acqua sia l’effetto prodotto dalla preghiera solitaria in cima al monte; né che pregando nel modo giusto si ottenga di essere in grado di cam­minare sull’acqua. Semplicemente sono l’uno inseparabile dall’al­tro, come due facce di un’unica moneta.

E evidente, dalla narrazione, che Gesù non pensava minima­mente a camminare sull’acqua prima di ritirarsi sul monte: non mi­rava assolutamente a quello scopo, appartandosi, così come non si era appartato in precedenza al fine di moltiplicare poi pani e pesci. Con questa sequenza Gesù ci mostra il giusto rapporto fra preghiera e vita quotidiana. Ritirarsi sul monte in solitudine a pregare significa rompere ogni relazione umana, smettere ogni consuetudine sociale, dedicare il proprio essere (il proprio tempo) a tutt’altro rispetto a ciò che si fa tutto il giorno. In questo caso salire sul monte, solo, a prega­re, è esattamente ciò che noi intendiamo per zazen, quale che sia la forma che assume per ciascuno questo abbandono totale di tutto. Questo non si fa in vista di un fine da ottenere: si fa perché non se ne può fare a meno. Neppure Gesù Cristo può fame a meno: non lo fa
certo per raggiungere uno scopo particolare colui che è col Padre e dal Padre. Questa pratica solitaria ed elevata, di cui nulla si dice se non che e, illumina con la sua luce tutta la vita ordinaria: moltiplica­re i pani, camminare sull’acqua, non è altro che la vita ordinaria illu­minata dalla pratica solitaria. Se fosse un miracolo nel senso magico del termine, una manifestazione di potere soprannaturale, allora Gesù avrebbe fatto camminare anche Pietro, o chiunque altro, a suo piacere. Invece no: Gesù ci mostra che ognuno deve illuminare la sua vita con la luce che ha in sé, che è intrinseca e peculiare a sé.

Chiunque abbia esperienza della pratica solitaria come parte in­tegrante della propria vita, sa, al di là di ogni possibile spiegazione, che il rapporto fra quella pratica e la vita ordinaria di relazione è esattamente quello che il Vangelo ci mostra: la differenza fra una giornata che comprende la pratica e una giornata che non la comprende a la stessa differenza che passa fra camminare sull’acqua e camminare sulla terra. Qui, ovviamente, per camminare sull’acqua e camminare sulla terra non si intende ciò che le parole dicono lette­ralmente: si intende invece una differenza assoluta, anche se nessu­no può dire quale è questa differenza e nessuno la può notare.

La cosa straordinaria (extra ordinaria) non è camminare sull’ac­qua, che per Gesù in quel momento è, evidentemente, cosa norma­lissima: la cosa straordinaria a salire sul monte, solo, a pregare. In­fatti è il totalmente altro rispetto a ciò che si fa sempre, l’interruzione di tutto. Questa cosa è priva di qualunque relazione con la vita ordi­naria, eppure a inscindibile da essa e ne modella tutto il significato. Questo sì è un miracolo, un vero grande mistero. Non c’è proprio modo di spiegarlo, e infatti Gesù neppure ci prova. Accennavo pri­ma che per noi quel salire sul monte da solo a pregare a lo zazen. In proposito scrive Doghen:

«Alla domanda “perché sedersi?” non vi è altro modo di risponde­re che così va fatto ..] . Insomma, se non si fa zazen non si può comprenderlo, e, senza fare zazen, non ha senso chiedere il perché del farlo» (Bendōwa – 11 cammino religioso).

Jiso

* Camminare sulle acque

La vita assomiglia a una traversata, su una barca, da una sponda all’altra. Alle volte il mare è calmo, il cielo sereno e spira una legge­ra brezza. Alle volte il vento è contrario e il mare tempestoso: ciò avviene quando i problemi e le difficoltà si abbattono su di noi come onde gigantesche e ci sembra di non avere la forza necessaria per far fronte alla situazione. Cosa fare in quei frangenti? Certo non è pos­sibile combattere contro il vento o le onde, né chiudere gli occhi o tapparsi le orecchie facendo finta che il pericolo non ci sia. Più che contrastare le onde e combattere contro il vento, la cosa più oppor­tuna sembra essere quella di lasciarsi trasportare, sforzandosi di ri­manere in piedi: questo atteggiamento non significa abbandonarsi in balia delle onde, cioè della sofferenza, ma comprendere con senso di realtà la situazione e accettarla senza lasciarsi abbattere.

Un grande sollievo può derivare dalla consapevolezza che il ma­re tempestoso è una condizione transitoria, ossia che la sofferenza intensa alla quale crediamo di soccombere è passeggera: col trascor­rere del tempo diventa meno acuta, così come avviene con una ferita che a poco a poco si cicatrizza. Affidarsi al tempo che passa vuol di­re dunque proiettarsi verso il futuro, vuol dire essere consapevoli che la notte non dura in eterno e attendere l’arrivo del nuovo giorno (Verso la fine della notte egli venne…). Se noi rimaniamo sempre col pensiero alla causa della nostra sofferenza ostacoliamo il processo di guarigione e impediamo a quella ferita di cicatrizzarsi.

Ma affidarsi al tempo che passa significa affidarsi alla vita che, nella sua essenza, è trasformazione, continuo passaggio da ciò che non è più a ciò che non è ancora; significa anche comprendere che, in questo svolgimento incessante al quale noi partecipiamo più o meno consapevolmente, nulla è casuale: che la morte del seme necessaria affinché germogli la pianta, che la notte deve morire per far nascere il nuovo giorno e che anche la nostra sofferenza, se ac­cettata, è necessaria per farci crescere, per farci diventare più di­sponibili, per farci uscire dai nostri attaccamenti, per farci entrare in noi stessi…

In questo atteggiamento esistenziale a l’essenza dell’essere reli­giosi; in questo atteggiamento esistenziale è la vera fede che non è assimilabile alla credenza in questo o quel dogma e non ha nulla a che vedere con l’appartenenza a questa o a quella confessione, trat­tandosi semplicemente della capacità di vivere nel contingente guar­dando oltre il contingente.

La fede è l’equilibrio fra la forza che ci spinge a vivere dentro le cose e la forza che ci spinge a guardare oltre le cose. Se siamo solo dentro le cose queste finiranno per fagocitarci; se guardiamo solo oltre perdiamo il senso della realtà. Se le due forze si annullano vicendevolmente noi non siamo né dentro né fuori: noi cammi­niamo sulle acque.

Annamaria Tallarico

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