Sab 18 Ott 2008 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi.

Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».

Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare».

Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

* Dio e Cesare, la dualità e l’uno

Il Vangelo d’oggi evangelizza un nodo importante della retta comprensione della vita umana. Il nome di questo nodo è la relazio­ne vitale degli opposti, che possiamo chiamare anche il principio vi­tale della dualità che forma l’uno. Questo Vangelo focalizza un am­bito molto attuale e vivace: la relazione degli opposti che sono Dio e Cesare. Ovviamente Dio e Cesare corrispondono alla religione e alla politica, comprendendo queste due valenze nel loro aspetto pri­mordiale ed elementare che coinvolge tutti, anche coloro che si di­chiarano atei, oppure anarchici. L’aspetto primordiale della religio­ne a il rapporto esistenziale che ogni uomo, in modo cosciente o no, vive con il mistero della vita, con ciò della vita che è oltre l’aspetto fenomenico. Una casa è composta dalla sua parte visibile, fatta di muri, balconi e molte altre componenti che tutti possono ammirare coi loro occhi. Ma è composta pure dalla parte che non si vede e che per sua natura non si deve vedere, le fondamenta. Così la vita di ogni uomo, anche dell’ateo, a sempre a tu per tu con Dio, anche se gli dà altri nomi quali: il mistero, la natura originaria, la perfezione, il caso, oppure semplicemente non so.
Ogni uomo, anche il più restio al discorso politico, nella sua vita è sempre condizionato da Cesare. Se, sdegnato dalla realtà politica, si ritira a vivere in un eremo del deserto, oppure sceglie di fare il barbone o si toglie la vita, è pur vero che tutto ciò consegue dalla realtà, da cui vuole fuggire.

«E lecito o no pagare il tributo a Cesare?». E la stessa domanda che ciascuno di noi pone ogni qualvolta pretende di trovare per sé la via senza opposti, senza dualità, senza conflittualità. E la stessa do­manda che ciascuno di noi pone quando amoreggia con una qualsiasi impostazione totalitaria o assolutistica, Dio compreso, Cesare compreso. Dio e Cesare, per la principalità che il primo rappresenta nell’ambito invisibile dell’esistenza e il secondo in quello visibile, costi­tuiscono per l’uomo il principale rischio di devianza; tuttavia la comprensione del loro retto rapporto a la chiave che apre alla vita reali­sticamente vera. Fuori dalla retta comprensione del loro rapporto, Dio diventa fondamentalismo religioso e Cesare dittatura; anche se Dio, per l’ateo, si chiama senza Dio, e Cesare, per l’anarchico, si chiama senza Cesare.

A porre la domanda a Cristo con l’intento di coglierlo in fallo nei suoi discorsi furono i discepoli dei farisei, coloro che assolutizzavano il ruolo della religione nella vita, e gli erodiani, i partigiani del re Erode, che invece assolutizzavano quello della politica. La domanda se è lecito pagare il tributo a Cesare, nel cuore di chi ha una precisa appartenenza religiosa, si pone anche in questi termini. è lecito a chi appartiene a una religione pagare il tributo alle altre religioni? E le­cito alla Chiesa imparare la via attraverso le religioni non cristiane? Non è sufficiente il tributo pagato a Cristo, il Figlio di Dio? L’uomo, per sbarazzarsi di ciò che, lungo il percorso della vita e della storia, costituisce per lui una sfida alle sue abitudini mentali e sociali, è sempre tentato di dare nomi spregiativi alle sfide che lo disturbano: compromesso, infedeltà, ambiguità, eclettismo, dualismo, per ca­muffare la propria incapacità di confronto e di dialogo. In questa at­mosfera anche il dialogo interreligioso può scadere in monologo.

«Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che e di Dio». E’ profondamente vero che l’uomo pellegrina nella precarietà del tempo, portando dentro di sé l’autentica immagine di Dio e il co­stante richiamo all’eterno. La grandezza di questo richiamo sembra contraddire con la limitatezza del piccolo passo che può compiere di volta in volta. Perfezione e imperfezione si intrecciano nella vita. L’uomo è chiamato a vivere due fedeltà: quella religiosa in dialogo con Dio e quella temporale in dialogo con la terra e le sue autorità. Cristo a morto per la volontà del Padre celeste e per la condanna del rappresentante del re della terra. Morì obbedendo a due autorità che in quel momento erano l’una contro l’altra, ma che egli percepi­va unite dal fatto che ambedue sono necessarie.

La visione diviene più ampia se uno vola alto nel cielo. Parados­salmente una profonda fede religiosa genera nell’uomo un più pro­fondo affetto verso le cose fenomeniche del tempo e dello spazio dell’uomo. Un uomo politico col cuore religioso sa dedicarsi genero­samente ai suoi impegni pubblici senza essere frastornato dagli inte­ressi privati o partitici, perché non assolutizza alcuna ideologia. In­fatti vede ampio e conosce il limite di ogni cosa e anche la sua armo­nia nel tutto. Sa sorridere anche sui propri errori e chiedere scusa a chi di dovere. Sa perfino ritirarsi al momento opportuno, senza lamentele o malauguri. Avvicinandosi all’assoluto cresce la capacità di relativizzare.
«Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Significa quindi non costruire alcun partito cristiano, perché la mediazione tra l’eterno e il temporale non può essere demandata ad alcun sistema, ma deve continuamente svolgersi nel santuario della coscienza in dialogo con gli opposti che costituiscono l’unico cammi­no della realtà. La Chiesa è nata dal costato dell’uomo-Dio che morì sulla croce dal ramo verticale e dal ramo orizzontale, amandola fino alla morte.

p.Luciano

* Gli ambiti dell’indivisibile

La struttura del dialogo fra gli erodiani e Gesù è ancora una vol­ta quella tipica del koan, se non si considera la malafede intenziona­le di coloro che pongono la domanda. Ma ignorando questo aspetto che non mi pare essenziale, la situazione è comune. Quante volte facciamo una domanda non per metterci poi in condizione di ascol­to, ma per avere conferma della risposta che abbiamo già in testa, o per la semplice curiosità di sentire cosa dirà chi deve rispondere! Co­munque questo dialogo si presenta con la struttura del koan nel sen­so che è posto un quesito che apparentemente richiede una risposta netta, o sì o no, ma che in realtà non può essere esaurito da una ri­sposta del genere: tanto l’affermazione che la negazione sarebbero risposte sbagliate o insufficienti, che lascerebbero irrisolta una parte del problema. Come tutti i koan, è affrontata una questione la cui soluzione non può essere convenzionale, ma deve nascere dalla pro­fondità dell’esperienza che trascende affermazione e negazione.

Ho erroneamente pensato, riflettendo su questo dialogo, che siccome alla fin fine anche Cesare è di Dio, perché tutto è di Dio, non si può separare quello che a di Cesare da quello che è di Dio. La risposta di Gesù, in questo caso, non sarebbe risolutiva, ma un’indicazione contingente, per smascherare l’ipocrisia dei suoi in­terlocutori. Questo è un errore non grave, ma gravissimo. Un ragionamento del genere è alla base del totalitarismo religioso, con tutte le tragedie che ne conseguono. Qui Gesù sta facendo ben di più che smascherare e rendere impotente una malizia: sta dando un’indicazione che, se fosse seguita e compresa, toglierebbe ogni legittimità a tutti i fondamentalismi religiosi, a quelle visioni che in­tendono la religione come sistemi chiusi e onnicomprensivi che de­vono spiegare, regolare, incanalare ogni aspetto della vita dell’indi­viduo. Qui Gesù delimita degli ambiti: afferma senza possibilità di fraintendimento che c’è un ambito di Cesare e c’è un ambito di Dio. Certo, la realtà nella sua totalità è indivisibile. Certo, Dio è questa indivisibile totalità. Ma questo non ha niente a che fare con la soppressione degli ambiti e con la confusione delle parti: rendere a Cesare quel che è di Cesare, ottemperare ai propri doveri sociali, non ha niente a che fare con rendere a Dio quel che è di Dio, che è la funzione specificatamente religiosa. Rendendo a Cesare quel che è di Cesare, nell’ambito di Cesare, si ottempera anche a un dovere verso Dio, nel senso che si fa la propria parte come si deve, e que­sto a sempre un atto religioso. Ma pensare che fare la propria parte in campo sociale sia la funzione religiosa, vuol dire negare a Dio quel che è di Dio. La religione ha un suo ambito che va vissuto co­me tale, valorizzato, non confuso con altri ambiti. Nel nostro pae­se, invece, questa confusione a totale.

Si sente per esempio dibattere il problema se chi professa una fe­de religiosa debba avere in quanto credente un ruolo politico e socia­le specifico. Solo pensare che esista un problema del genere è la ne­gazione della risposta di Gesù. Recentemente ho sentito, in televi­sione, dire che i credenti possono scegliersi liberamente la formazio­ne politica in cui militare, ma hanno, come credenti, due doveri: quello della solidarietà e quello della difesa della vita. Ma viene da chiedersi: cosa c’entra il cristianesimo, o il buddismo, la religione in genere, con la solidarietà e il rispetto della vita? Confondere proble­mi del genere con la religione è negare alla religione ogni valore spe­cifico. E’ negare la parte di Dio. Solidarietà, rispetto della vita, sono valori minimi, che riguardano ogni uomo, religioso o meno che sia. La religione comincia dove questi problemi finiscono. Sarebbe come dire che il compito di un saltatore in alto è di sollevare i piedi; ma questo è quello che devono fare tutti quelli che camminano, il salto in alto è quello che viene dopo. Una persona che ha un animo reli­gioso si sente avvilita nel sentirsi di dire che tutto quel che deve fare comportarsi bene: questo si dice ai bambini. Questo è come dire che è sufficiente rendere a Cesare quel che è di Cesare. A Dio ci penserà qualcun altro.
Questo atteggiamento è tipico dei religiosi (cristiani, buddisti, o quel che siano) che pretendono che la religione deve occuparsi di tutto: che deve regolare tutto. Nel migliore dei casi si vanifica il sen­so vero della religione, che diventa un oggetto misterioso o un mine­strone insapore; nel peggiore dei casi si comincia a tagliare le mani ai ladri: ma sono due facce della stessa medaglia.

Gesù invece ci dà questo grande insegnamento a non confonde­re, a distinguere per valorizzare ogni aspetto della vita. Un cittadino dello stato è un cittadino di quello stato: non è cristiano, né bud­dista, né altro. Deve solo essere un buon cittadino: così facendo ot­tempera del tutto ai suoi doveri, senza bisogno di aggiungere nulla. Va da sé che, fra i suoi doveri, c’è quello di fare in modo, per ciò che gli compete, che lo stato di cui a cittadino sia uno stato giusto. La stessa persona che è cittadino nel momento in cui fa il cittadino (ren­de a Cesare), nel momento e nell’atto in cui rende a Dio, non è né cittadino, né operaio, né professionista, né disoccupato, né padre, né madre, né uomo, né donna… Quando preghiamo, quando faccia­mo l’eucaristia, quando sediamo in zazen, non siamo niente di tutto ciò che le relazioni ci fanno essere: in termini cristiani, semplice­mente siamo figli di Dio che rendono a Dio, in termini buddisti sia­mo semplicemente il sé che fa il sé in sé. In questo senso, anche l’ap­partenenza religiosa, il riconoscersi in una identità religiosa, fa parte dell’ambito di Cesare. Rendere a Dio quel che è di Dio è qualcosa di assolutamente unico e universale che non è caratterizzato da null’al­tro: se non si arriva a questo punto, va perso il fondamento stesso della religione: dal mirare a quel fondamento può poi venir luce a tutto il resto, a tutti gli altri ambiti della vita. Ma proprio noi, i reli­giosi, troppo spesso dimentichiamo di rendere a Dio quel che è di Dio, occupandoci solo di fare la voce della coscienza di Cesare o ad­dirittura i suoi consiglieri.

Jiso

* Il reale come fondamento del cammino spirituale

Il denaro, in una società civile, rappresenta un punto costante di riferimento; l’abitudine a farne uso ci fa forse dimenticare quanto in effetti l’uso del denaro sottintenda da un punto di vista etico: in pri­mo luogo che ogni bene e ogni servizio sia quantificabile, ossia abbia un prezzo; in secondo luogo, aspetto questo che si collega diretta­mente al precedente, che lo scambio di beni o servizi presupponga sempre un dare e un avere: lo stato offre dei servizi alla comunità, dunque i cittadini devono pagare le tasse; chi svolge un’attività lavo­rativa ha diritto in cambio a una adeguata retribuzione. In terzo luo­go in questo dare e avere è legittimo realizzare un guadagno. Questo terzo aspetto assume alla fine un valore determinante: da una parte diventa il criterio in base al quale si decide il prezzo di quel bene o di quel servizio; dall’altra consente di operare delle scelte evitando quegli scambi nei quali il guadagno, sia esso di tipo materiale oppure no, appare irrisorio. In conclusione il capitale, sia a livello di singolo individuo che a livello di comunità, è considerato positivamente in quanto segno di ricchezza, di prestigio, di potere: è questa l’etica della borghesia che ha avuto modo di esprimersi appieno a partire dalla rivoluzione industriale.

Chi vive nella società si confronta quotidianamente con questa mentalità che va a influenzare non solo ogni attività, ma anche i rap­porti affettivi. Fra i tanti esempi che a questo proposito si possono considerare, uno appare significativo: una ragazza molto bella di aspetto, ma di famiglia di modeste condizioni economiche, desidera sopra ogni altra cosa sistemarsi, ossia raggiungere il benessere eco­nomico. Qual è la strada più semplice e sbrigativa per realizzare questo? La risposta a scontata: un buon matrimonio. Tale ragazza allora si metterà alla ricerca di un ragazzo che abbia una solida posi­zione economica alle spalle. A pensarci bene il rapporto affettivo è posto in secondo piano, la bellezza diventa una merce di scambio e risultato da conseguire il guadagnare una vita agiata.

I valori sui quali poggia la nostra società, che hanno nel denaro un punto costante di riferimento, appaiono in netto contrasto con quelli del Vangelo che si ispirano alla sobrietà, alla critica del consu­mismo, dell’edonismo, dell’individualismo. Perché questi richiami al Vangelo non sembrano in grado di incidere in modo significativo sulla mentalità e le abitudini di vita? Probabilmente la ragione è che viene operata una netta scissione fra la società reale e la società ideale che al Vangelo si ispira: la prima, negativa, esprime il male; la seconda, il bene. Fra la prima e la seconda non sembra possibile una mediazione. Ma è lo stesso Vangelo che ci mette in guardia: «Rende­te a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che e di Dio». Se ci soffermiamo a considerare la prima parte di questo insegnamento ci accorgiamo che le parole di Gesù sono un potente richiamo, per gli uomini di ogni tempo, alla realtà attuale che ci vincola e dalla quale non possiamo né dobbiamo prescindere. Se la parola del Vangelo ci spinge per esempio a fantasticare su una società ideale, estraniando­ci da quella effettiva, noi perdiamo il contatto con il reale. Se, accet­tando il contesto nel quale siamo chiamati a operare, permettiamo alla parola del Vangelo di trasformarci, inizierà un cammino vero di crescita che non necessariamente deve tradursi in azioni strabilianti, ma che forse parte da una piccola azione che noi facciamo, proprio in questo momento, senza pretendere né desiderare nulla in cambio, senza preoccuparci di conseguire mete ideali troppo elevate, troppo lontane dalla nostra realtà per essere realizzate.

«Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esa­minare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila?» (Lc 14,28-31).

Annamaria Tallarico

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