Sab 25 Ott 2008 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».
Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

* Il primo comandamento: l’amore e la fignità

«Maestro, qual a il più grande comandamento della legge?». Co­noscere il più grande comandamento della legge equivale a conosce­re l’aspetto più intimo della realtà. Infatti la legge di Dio ordina alle creature il comportamento che più intimamente si confà alla loro na­tura specifica. Anzi non c’è altro modo per conoscere la legge, se non quello di conoscere le esigenze più profonde di ogni realtà. La legge comanda all’uccello di volare, al pesce di nuotare, alle stelle di brillare, al sassolino di giacere sul ciglio della strada: a ogni creatura comanda di essere se stessa. Creando «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1,31). La legge divina comanda alle cose di spremere la loro vena originaria. Il primo comanda­mento della legge comanda quindi all’uomo di mostrare il suo volto primordiale, quello ricevuto nella creazione. Il Vangelo, rivelando all’uomo il più grande comandamento, di fatto non fa altro che ri­svegliare nell’uomo il ricordo della sua origine. Conviene all’uomo ascoltarlo nel più profondo silenzio.

«Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il pia grande dei comanda­menti». Nessuno sa che cosa significhi amare il Signore Dio, perché «nessuno mai ha visto Dio» (1Gv 4,12). Però ogni uomo può fare esperienza di che cosa significhi amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente. Il cuore è l’affetto, l’anima a lo spirito e la mente a la ragione. Quando tutto ciò che è affetto, spirito e ragio­ne viene offerto a Dio che nessuno mai ha visto, allora il più grande comandamento della legge è adempiuto. L’uomo offre tutto il cuo­re, lo spirito e la mente quando non trattiene nel proprio cuore, spi­rito e mente alcuna immaginazione di Dio da lui costruita; questo suo rapporto con Dio è spoglio da presunzioni. E’ il vuoto l’atmosfe­ra del cammino religioso. Il vuoto è un termine molto usato nello Zen e indica libertà interiore. Nel Vangelo prende il nome di amore.

Amare Dio con tutto il cuore, lo spirito e la mente significa quin­di non materializzare Dio a oggetto del nostro amore. Dobbiamo amarlo senza possederlo, senza mercificarlo in sensazioni a nostro uso e consumo. Dio va amato lasciandolo nella sua invisibilità. L’in­visibile non è meno reale di ciò che è visibile; ma se lo si trasforma in realtà visibile, cessa di essere se stesso. Così Dio cessa di essere Dio e diventa una nostra proiezione, quando lo riduciamo a oggetto del nostro amore. A Tommaso, che voleva credere solo dopo averlo toccato, Cristo rispose: «Perché hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Gv 20,29). Non dobbiamo dare alcuna forma a Dio, ma amarlo lasciandolo Dio.

Amare Dio con tutto il cuore, spirito e mente diviene in noi anzi­tutto capacità di stare davanti a lui in perfetto silenzio. Nello Zen è stata custodita e trasmessa la pratica dello zazen, in cui l’uomo siede immobile e sacrifica ogni attività del corpo e della mente. Lo zazen, come un sacramento, mette in atto in chi lo pratica la posizione dello stare con cuore sveglio davanti a ciò che non si può prefigurare, cre­dendo senza vedere nulla. La pratica dello zazen mette in atto nel cristiano la capacità di stare in silenzio di fronte a ciò che si crede senza vedere. Il silenzio attento o l’attenzione silenziosa è il veicolo che lascia scorrere l’amore autentico. L’amore vero esige purezza d’intenzione, rispetto, donazione, distacco, libertà, umiltà: sono le virtù che germogliano dal silenzio vissuto con gli occhi aperti e cuore attento. Nello zazen ci si siede di fronte al muro; nell’amore verso Dio si sta di fronte al mistero della vita e della storia. «Nessu­no mai ha visto Dio», ma quando uno ama Dio sta di fronte al suo mistero e, senza vedere, tiene gli occhi aperti, si coinvolge, agisce.

Amare Dio con tutto il cuore, spirito e mente è pregarlo senza avere qualcosa da chiedergli, è gridare il suo nome tacendo, è ado­rarlo in ginocchio stando in piedi. Allora l’uomo ama come Dio ama, il quale continuamente tutto crea senza mai essere visto dalle sue creature, senza mai lasciare traccia. Rimanendo invisibile, rende tutto visibile; dandosi tutto, rimane sempre trascendente.
«E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come lo stesso». Amare Dio con tutto il cuore in sintesi a scoprire l’immagine di Dio dentro di sé e averne cura. Amare il prossimo come se stesso è amare negli altri la stessa immagine divina che constatiamo in noi. E un’unica bellezza divina che circola da Dio alle creature e dalle creature ritorna a Dio. Così in un solo cuore l’uomo ama Dio, prossimo e se stesso.

Oggi nel mondo l’amore verso il prossimo è raro. Il Vangelo indica la via per crescere in questo amore: avere cura di se stesso. Come può amare il prossimo come se stesso chi non ama se stesso?

L’uomo non ama se stesso, perché preferisce il quieto vivere che è garantito proprio dal non amare se stesso. I devozionalismi, gli oro­scopi, i fanatismi sportivi e politici, la pubblicità commerciale sono un mercato in voga dove si svende il proprio pensiero, la propria unicità. Si svende se stesso per pochi soldi. Ma chi non sa difendere l’amore e la cura verso se stesso può amare gli altri come se stesso? Gli manca il parametro di come si ama.

Solo chi ha il cuore libero può amare. Solo chi ha scoperto l’im­magine di Dio dentro di sé ama la libertà. Il più grande dei coman­damenti ci ordina di amare: quindi ci comanda di essere liberi, di essere noi stessi. E poi offrire questa libertà pura all’amore.

p.Luciano

* Niente di nuovo, tutto rinnovato

La nostra mentalità individualista e presuntuosa ci porta a pen­sare che un grande maestro sia colui che inventa qualcosa di nuovo, che apre strade che mai sono state aperte, che si svincola dai legami tradizionali. Invece, gli esempi di tutti i veri maestri, a cominciare dai più grandi, ci dimostrano esattamente il contrario: la loro preoc­cupazione di testimoniare per mezzo della tradizione antica veridici­tà delle loro affermazioni. Dimostrare di non aver inventato nulla, di non aver aggiunto arbitrariamente nulla, e contemporaneamente rivitalizzare tramite la propria esperienza e il rinnovamento dell’e­spressività quanto di fondamentalmente vero è da sempre afferma­to: questa si potrebbe dire la caratteristica distintiva di un maestro autentico.

Budda non ha inventato nulla, ha semplicemente ridato fre­schezza alla verità contenuta nella tradizione indiana, tramite la fre­schezza della sua vivacità. Così facendo ha rivoluzionato completa­mente la tradizione e contemporaneamente l’ha protetta e traman­data nel suo fondamento. Di freschezza in freschezza, rinnovando completamente la forma espressiva, quello che chiamiamo per co­modità buddismo ha traversato i secoli e i continenti restando inalte­rato nel fondamento: ciò può succedere solo perché chi tramanda per esperienza vissuta, preserva e rinnova nello stesso momento.

Non diversamente comandamento più grande di tutti, fondamento del cristianesimo, non è certo una sua invenzione, né una sua originale formulazione. Anzi: Gesù si preoccupa di usare esattamente le stesse parole dei libri antichi, perché sia chiaro che non vuole inventare nulla di nuovo, ma dar pieno valore e applica­zione alla verità della tradizione. Il dottore della legge lo sa bene, e, nello stesso episodio narrato da Marco (12,32), approva senza riser­ve. Le parole che Gesù usa «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, e con tutta la tua forza vitale» e «Ama il prossimo tuo come te stesso» si trovano, identiche, rispettivamente nel libro del Deuteronomio 6,5 e nel libro Levitico 19,18, dette da Dio a Mosè. Niente di nuovo. Ma Gesù le rinnova completamente, rivendicandole come fulcro di tutto. «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». L’amore non è il risultato, prodotto, a il fondamento, il sostegno: non è la Legge e la rivela­zione dei Profeti che promuove e sostiene l’amore, ma viceversa l’amore che sostiene e promuove la struttura della Legge e l’azione dei Profeti.

In campo buddista, non è la Norma (Darma) e la discendenza di maestri e discepoli, di Budda e Patriarchi che costruisce la Via, ma è la Via che sostiene la Norma e concatena la discendenza di coloro che la Via stessa percorrono e proteggono.

Nelle parole di Gesù il comandamento più grande si struttura co­me una trinità-unita nell’amore. Dio – io – tu: ama Dio, ama il pros­simo, ama te stesso. E l’amore che stabilisce l’identità: la anima, fa circolare in essa la vita. Amore vuol dire essere in ciò che si ama. Senza amore Dio non c’è: non ha alcun senso ragionare sull’esisten­za di Dio: Dio c’è solo se lo si ama, se si è in Dio. «Con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la forza vitale». Senza amore tu non ci sei: se tu sei solo un oggetto fuori di me, se io non sono in te, questo non è amore, e tu in realtà non ci sei: sei solo un gingillo della mia mente e dei miei sensi, che potrò anche trattar bene ma sempre per interesse, per calcolo, per mediata compassione. Senza amore io non ci sono: se non mi amo, se non sono in me con tutto me stesso, comunque io sia, allora quel che chiamo io a un’immagine di me, è io come mi vedo, mi voglio, non mi voglio: ma questa è una carica­tura dell’amore. L’amore annulla l’identità dei tre di questa trinità, e nello stesso tempo ne rende reale la fisionomia.

Dell’amore bisogna parlare poco: non va nominato invano. Sentite cosa dice Dōghen, senza nominare amore, del pesce, del­l’uccello, dell’acqua, del cielo, della vita.

«Il pesce nuota nell’acqua, e se nuota non c’è limite all’acqua; l’uc­cello vola nel cielo, e per quanto voli non c’è limite al cielo. Tutta­via né il pesce né l’uccello da mai ancora si sono separati dall’acqua o dal cielo. Semplicemente quando serve un uso grande usano in grande. Quando serve un uso piccolo usano in piccolo. Stando così le cose, né succede che uno per uno non impieghino tutto il loro ambito, né avviene che non vadano in giro per ogni dove; però se l’uccello uscisse fuori dal cielo subito morirebbe, come il pesce se uscisse fuori dall’acqua. Essendoci l’acqua c’è la vita, essendoci ii cielo c’è la vita. Essendoci l’uccello c’è la vita, essendoci il pesce c’è la vita. Essendoci la vita c’è uccello, essendoci la vita c’è il pesce. Eppure bisogna ancora andare oltre. Cosi c’è la testimonianza vis­suta, così c’è l’adempimento della vita»
(Shōbōghenzō Ghenjō­kōan – La profondità evidente del presente che si fa presente).

Jiso

* Essere una goccia di rugiada

Spesso il secondo comandamento che recita Amerai il prossimo tuo come te stesso, viene esplicitato in questo modo: Non fare agli al­tri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso oppure fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te stesso. Il seguire questo criterio pub essere molto utile per chi ha bisogno di una precisa indicazione pratica cui fare riferimento: prima allora di criticare, di offendere, di menti­re, di ironizzare, può essere utile chiedersi: «Sarei contento se altri si comportassero con me in questo modo?» Se in coscienza la nostra risposta è no, dobbiamo anche noi astenerci dal farlo.

Ma limitarsi a concepire in questi termini l’amore per il prossimo 1) non ci aiuta a comprendere per quale motivo Gesù ci dice che il secondo comandamento è simile al primo, nel quale si recita: «Ame­rai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente»; 2) lascia aperto un interrogativo: che cosa signifi­ca esattamente amare se stessi? Per coloro che amano se stessi con­cedendosi lussi e piaceri amare il prossimo potrebbe voler dire offri­re ad altri le stesse opportunità.

Per evitare ogni equivoco o fraintendimento e poter rispondere a questi interrogativi occorre riconsiderare il primo comandamento: quello che ci viene richiesto a un amore verso Dio totale, nel quale devono essere convogliate tutte le nostre facoltà: il cuore, cioè l’af­fettività e l’emotività; la mente, cioè tutta la nostra attività di pensie­ro; l’anima, cioè quella parte spirituale dentro di noi che non può essere identificata né con la mente né col cuore.

Per chi è abituato a praticare lo Zen sedendosi con il busto eret­to, le gambe incrociate e le mani che si appoggiano sul ventre con i pollici in alto che si toccano e le dita in basso sovrapposte, questo amore totale diventa una realtà: l’uomo, a un tempo realtà fisica, in­tellettuale, emotivo-affettiva e spirituale, è ricomposto nella sua unita originaria e tutto proteso verso una realtà che lo trascende, in quanto è prima di ogni pensiero e di ogni emozione. Questo atteg­giamento, che la pratica della meditazione suscita in noi, se diventa parte della nostra vita, ci abitua a perdere a poco a poco la nostra centralità, cioè quel nostro modo abituale di rapportarci alla realtà che si concretizza nel desiderio di possedere tutto quanto riteniamo essere per noi necessario: la comprensione da parte degli altri, l’a­more, l’amicizia, il denaro, gli oggetti di lusso e ogni altro bene.

A questo punto è possibile rispondere alla domanda: «Che cosa significa amare sé stessi?». Se nella nostra vita è presente quest’amo­re totale verso Dio, amare se stessi vuol dire imparare a poco a poco a uscire dalla propria piccola realtà fatta di abitudini, desideri e attaccamenti. Si ama cioè veramente se stessi quando ci si allontana dal piccolo sé per entrare nel grande Sé.

Ecco allora che risulta evidente il legame fra il primo e il secon­do comandamento e si comprende chiaramente perché il secondo comandamento è simile al primo: amare il prossimo come se stesso vuol dire comprendere fino in fondo, non essendo distratti da pen­sieri egocentrici, la realtà dell’altro, i suoi desideri, i suoi attacca­menti, la sua sofferenza; non provare rancore se l’altro ci fa del ma­le, ma un’autentica compassione; desiderare che l’amore per Dio, che ci permette di accogliere e amare la realtà anche nei momenti di sofferenza, possa essere sperimentato anche dall’altro; essere per l’altro una goccia di rugiada che placa la sete; una piccola luce che ri­schiara le tenebre.

Annamaria Tallarico

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