Dom 9 Nov 2008 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: “Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi.

Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono. A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene.

Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa.

Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco.

Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”.

* Brillare di luce propria

Oggi, epoca del look, in cui il valore di una persona o di una cosa dipende da come fa colpo sugli spettatori e da quanta attrattiva su­scita, il Vangelo della parabola delle cinque vergini sagge e delle cin­que stolte a straordinariamente attuale. Anche nella Chiesa il nume­ro dei fedeli, le attività che si svolgono, i documenti che si pubblica­no sembrano occupare gran parte della cura pastorale: pastorale che stanca proprio perché sostenuta con sforzi esteriori più che dalla for­za interiore di un autentico cammino delle comunità.

«Le cinque stolte presero con sé le lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi». Ci domandiamo: qual è la differenza che costituisce sagge le prime e stolte le seconde? Cos’è che dopo tutto costituisce una persona saggia o, al contrario, stolta? La differenza è una sola: le sagge avevano provveduto, insieme alla lampada, anche all’olio; le stolte si erano accontentate delle lampade, forse con dentro poco olio, oppure senza del tutto; comunque senza la provvista di riserva. Probabilmente e le une e le altre convivono dentro ciascuno di noi, nella Chiesa e nella società.

Le cinque vergini stolte sono ciascuno di noi quando riversiamo l’attenzione sulla nostra parte appariscente e dimentichiamo la parte nascosta. C’è in noi una parte che appaga l’occhio e suscita negli al­tri consenso e ammirazione, forse anche invidia. Ci rende importan­ti e fortunati agli occhi degli altri. Senza gli occhi degli altri riversati su di noi, non troviamo significato nella vita; non ci sentiamo noi stessi. Dipendiamo dagli occhi degli altri, ovviamente perché non troviamo interesse dentro noi stessi; non conosciamo altra libertà che quella di essere condizionati. Confondiamo libertà con confor­mità. Ci pensiamo liberi perché siamo piacevoli. La sera, quando siamo soli, ci pub prendere un senso di smarrimento e perfino di paura. Allora bisogna accendere la televisione o lo stereo per avere l’impressione della presenza degli altri; oppure sentiamo il bisogno di interminabili telefonate. Lo stare da solo con se stesso ci incute paura. Paura di chi, di che cosa? Ovviamente di se stesso: un se stes­so mai scoperto, mai conosciuto, mai amato. Mi faccio paura! Forse sono una lampada dorata, al punto da suscitare invidia; ma non bril­lo di luce propria. Si spegne, perché non è alimentata dall’olio che è al suo interno.

Sono le cinque vergini stolte molti aspetti della nostra cultura: la moda e l’allineamento a copiare i gesti degli idoli sportivi o della canzone, l’omertà per cui si preferisce fingere di non aver visto anziché collaborare per il rinnovamento sociale, il dare sempre la colpa di tutto a tutti senza mai coinvolgersi in una riflessione di cambia­mento, la violenza di gruppo negli stadi. In questa cultura il pensare in proprio genera fastidio e impopolarità. In questa cultura si ap­plaude di più a chi nei quiz televisivi guadagna somme ingenti di de­naro attraverso colpi di fortuna che a chi suda, goccia dopo goccia, lo stipendio con cui nutre la sua famiglia. Si applaude di più a chi adorna la sua vita di cose, che a chi trasmette la vita e la fa crescere nei propri figli. Si applaude di più a chi appare di essere, che a chi è veramente.

Sono le cinque vergini stolte anche la dipendenza dei laici dal prete, quasi a gustare la sicurezza che proviene dal non decidere in proprio; la ricerca di visioni e di segni miracolosi che incantano e suscitano emozione, ma di certo non alimentano la fede di coloro che Gesù proclama beati, che credono pur non avendo visto. Molti nel cammino religioso, anziché mettere in atto l’energia dello Spiri­to che è stata alitata dentro di loro nella creazione e nella redenzio­ne, cercano ciò che invece può fare da surrogato al loro personale sforzo nella grazia. Anche la Chiesa si trasforma in vergine stolta, quando trascura ciò che non si vede nel cammino cristiano: il silen­zio, il digiuno, la conversione, la domanda di perdono, il sapersi ri­tirare con dignità e volentieri dopo aver dato il meglio di sé lascian­do ad altri il ruolo di guida della Chiesa. La Chiesa si trasforma nel­la vergine stolta quando si lascia prendere dalla mania di farsi vede­re, primeggiare, dire la sua a tutti i costi: quando vuole occupare un posto tutto suo, anziché essere fermento di tutti i posti senza chia­marne suo alcuno.
Oltre alle cinque vergini stolte, la parabola ci annuncia la reale esistenza delle cinque vergini sagge e anche queste abitano dentro di noi, dentro la nostra Chiesa, dentro la nostra società. C’è saggezza dove la luce che guida nella vita non è presa a prestito, per sentito dire, ma scaturisce dall’olio che è la propria convinzione nella fede, sostenuta dall’esperienza reale. L’olio è ricavato spremendo le bac­che dell’olivo. Così la saggezza non può essere teoria appresa dai li­bri, non può essere la ripetizione dell’esperienza di un altro. Essa è la propria vita quando ricerca, fatica, sudore, sofferenza la torchia­no e la vita si lascia torchiare spremendo olio e non aceto. Una tor­chiatura reale, ma soave!

«Signore, Signore, aprici! Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco». Si può apparire come se fossimo, mentre non siamo, e questo per tutta la vita. Si possono guadagnare tutte le simpatie del- le persone, tutte le cose che piacciono, e al termine della vita accor­gersi che è stata persa una sola simpatia, una sola cosa: se stesso. Al­lora Dio ci rifiuterà. Abbiamo trascurato l’immagine divina che creandoci aveva impresso in noi: non l’abbiamo scoperta, né cono­sciuta, né messa in azione. Abbiamo ignorato la missione in cui e per cui ci è stata donata l’esistenza. Non abbiamo portato frutto ma­turato dalla nostra linfa.

«Vegliate dunque». Nello Zen è stata custodita per millenni la pratica dello zazen, in cui l’uomo si siede in modo armonico e digni­toso di fronte al muro e rimane immobile per un tempo anche di ore, offrendo ogni attività della mente, del cuore e del corpo. Semplice­mente sta, senza appoggiarsi a nulla di ciò che è sua attività. Sembra il Cristo eucaristico nell’ostia conservata nel tabernacolo. Non fa nulla; solo è. Questo solo essere, senza nostre aggiunte, è quell’olio.

p.Luciano

* Il tempo opportuno

Tutta questa parte del Vangelo, che avvia alla conclusione del­l’anno, induce alla riflessione sul tempo, proprio come è avvenuto all’inizio dell’anno.

«Per tutto c’è un momento e un tempo per ogni azione, sotto il so­le. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per raccogliere. C’è un tempo per uccidere e un tempo per curare, un tempo per demolire e un tempo per costruire. C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per geme­re e un tempo per ballare. C’è un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per separarsi. C’è un tempo per guadagnare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttare via. C’è un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. C’è un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace» (Qoèlet 3,1-8).

Così ci ammonisce il Qoèlet, grande testo della religione universale. Essere tempo: con questo modo di esprimere la natura insepara­bile di essere e tempo abbiamo iniziato questo nostro percorso an­nuale. Ora cogliamo l’invito a essere pronti al tempo che viene. Pro­prio perché essere è tempo, certamente il tempo è ciò che è, e, altret­tanto certamente, c’è un tempo che viene. Essere non è statico, ha tutto il dinamismo della vita. Il tempo che viene c’è quando è venu­to: non prima, non dopo. Essere pronti vuol dire sapere che ogni tempo viene. Vuol dire vivere il tempo che c’è, e non quello che pensiamo che sia, che speriamo che sia, che temiamo che sia. Vuol dire aspettare, non solo nel senso di prepararsi a, ma soprattutto nel senso di essere in sintonia con. Certo, il contadino deve prepararsi alla primavera, anche se c’è l’inverno. Sa che la primavera viene. Ma non sa che primavera viene, né esattamente quando viene. Pre­pararsi a deve comportare una grande flessibilità: se c’è rigidità, schematismo, ogni imprevisto significa rovina. Un proverbio giap­ponese dice: «La preparazione è l’ottanta per cento del lavoro». L’al­tro venti per cento è flessibilità, e non vale di meno. Essere pronti al tempo che viene non ha niente a che fare con forzare i tempi. Il vio­lento cerca di forzare i tempi; la persona forte è pronta a qualsiasi tempo. Chi ha paura delle proprie reazioni di fronte al tempo che viene, cercherà di adottare un comportamento standard per ogni tempo: si farà forza, per non essere influenzato dal tempo. Questo tipo di forza a rigido, conduce all’estremo di mi spezzo ma non mi piego. Chi a in sintonia con il tempo che viene, lo vive fino in fondo, si consuma in esso: piange quando è il tempo di piangere, ride quan­do è il tempo di ridere: non si guarda piangere, non si osserva ride- re: piange e basta, ride e basta. Così si diviene il pianto e il riso, che naturalmente si esauriscono. Nello Zen si dice «Il freddo uccide il freddo, il caldo uccide il caldo». Chi si spezza non si rialza, chi sa piegarsi restando se stesso torna su da solo quando il vento cessa.

Quando il tempo viene si manifesta con la forza della inevitabile naturalezza. Abbiamo nei nostri giorni esempi evidenti di questo: muro di Berlino che cade senza sforzo, nel momento in cui sembra­va dovesse durare per sempre. L’apartheid in Sud Africa che si dis­solve, o comunque si incrina in modo irreversibile, mentre sembrava connaturato senza scampo con la natura di quel paese. Nella nostra vita abbiamo tutti esempi simili, io credo: le cose succedono quando è il momento che succedano, oltre i nostri sforzi. Non dobbiamo pensare che sia solo il risultato dei nostri sforzi, del nostro impegno: se quel tempo non viene, non c’è nulla da fare. Questo non vuol dire che non ci si debba impegnare: ma l’impegno va animato non dalla rigidità volontaristica, ma dalla flessibilità dell’attesa.

Zazen è la forma più pura di attesa del tempo che viene. B pren­dere anche dell’olio in piccoli vasi. E tenere la spada nel fodero sem­pre affilata. Quella presenza ridesta non indirizzata a nulla, a la for­ma semplice della vita che vive attendendo la vita. Vegliare vuol dire essere pronti, nel senso di vivere il tempo che è. Non potremo mai sa­pere se siamo pronti, finché il tempo non viene. Non esiste una for­mula che ci permetta di sapere prima se saremo o non saremo pron­ti. Sappiamo tutti di dover morire, senza l’ombra del minimo dub­bio, eppure non è possibile prepararsi a morire la propria morte: nessuno sa il come e il quando.

«Questo zazen non consiste nell’imparare a meditare. Semplice­mente è la porta reale della pace e della gioia, è la pratica del ri­sveglio che esaurisce l’essenza della via. Il presente si fa presente con evidente profondità, qui non arriva la ragnatela dei condizio­namenti e delle illusioni. Se trovi dimora in questa direzione dello spirito, è come il drago che trova la sua dimora nell’acqua, asso­miglia alla tigre che si sdraia in montagna. Occorre conoscere con correttezza che la realtà autentica si manifesta e si fa avanti per forza sua e che distrugge innanzitutto l’intontimento e la dissipa­zione. Andare oltre il mediocre e andare oltre il santo, perfi­no morire in zazen o morire in piedi: tutte queste cose, da sempre tenute in grande considerazione, affidale completamente a questa forza» (DOGHEN, Fukan zazen ghi – La forma dello zazen che è invito universale).

Jiso

* Il cammino spirituale

Tutti noi assomigliamo un po’ alle dieci vergini che vanno incon­tro allo sposo. La verginità ci suggerisce un’idea di incompletezza, di uno stato che deve essere superato e ciò può avvenire solo grazie al­l’unione con lo sposo. La morale permissiva alla quale noi siamo abituati forse ci impedisce di cogliere fino in fondo la forza e la po­tenza di questa immagine cerchiamo quindi di calarci in una realtà diversa dalla nostra, nella quale solo attraverso l’unione con lo spo­so la ragazza perdeva la sua verginità.

Dunque all’origine del cammino spirituale c’è questa forte ten­sione, che nasce dalla percezione della propria incompletezza.

Le vergini che escono incontro allo sposo prendono con sé le To­ro lampade. Il cammino spirituale è dunque un cammino difficile, attraverso luoghi non illuminati come, possiamo immaginare, una galleria o un tunnel; il cammino, in altri termini, ci mette di fronte alla nostra cecità, cioè alla nostra incapacità di vedere chi siamo, do­ve siamo, dove andiamo. In noi però esiste la possibilità di rischiara­re le tenebre perché possediamo la lampada, che è consapevolezza, coscienza, luce interiore. Tutti noi possediamo questa consapevolezza, ma in alcuni essa si trasforma in luce che illumina (le vergini che hanno la lampada con l’olio), in altri a destinata a rimanere inutiliz­zata (le vergini che hanno le lampade senza l’olio).

Dunque noi siamo dotati della lampada e non dell’olio; l’olio dobbiamo comprarcelo. Ma per comprare bisogna pagare, cioè pri­varsi del denaro, the è quanto si possiede. Ecco dunque che noi mettiamo l’olio nella lampada ogni qualvolta, nella nostra vita, ci priviamo di qualcosa che alimenta i nostri attaccamenti e desideri materiali; ma anche quando, nella quiete e nel silenzio, creando un’interruzione negli impegni e negli affanni quotidiani, diventiamo quel contenitore vuoto che lo Spirito può riempire.

Il cammino spirituale a un cammino di solitudine: certo, possia­mo avere compagni di viaggio, ma nessuno può camminare al posto nostro, nessuno può comperare l’olio al posto nostro. Quello che conta sono le scelte di vita e nessuno può farle al posto nostro: pos­siamo farci consigliare, ma alla fine siamo noi i soli responsabili del- la nostra vita e saremo noi, in prima persona, a subire, nel bene e nel male, gli effetti delle nostre scelte.

Il tempo che ci è riservato per arrivare a congiungerci con lo spo­so, ossia per portare a termine il nostro cammino, a limitato; a compreso nello spazio di tempo che va dalla nostra nascita alla nostra morte, poi il cammino si interrompe, come la porta che si chiude della parabola. Potremmo, strada facendo, accorgerci che ci manca l’olio, correre a comprarlo e fare ugualmente in tempo a farci trova­re pronti all’arrivo dello sposo, ma potremmo anche non fare a tem­po, morire prima e avere perso l’opportunità di incontrare lo sposo.

Chi non fa a tempo ad arrivare, perde per sempre la possibilità di ricongiungersi allo sposo, come il concetto di inferno sembra sug­gerirci? Avrà ancora qualche opportunità, grazie a possibili, future reincarnazioni? Porsi questi quesiti a interrogarci su quanto esula dalla nostra esperienza che a sempre legata al qui e ora della nostra vita concreta. Chi vive con responsabilità il momento presente assi­curandosi che nella sua lampada ci sia l’olio a tranquillo, sereno e gioioso nel suo intimo e non si preoccupa di sapere cosa accadrà quando la porta si chiuderà.

Annamaria Tallarico

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