Sab 3 Gen 2009 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO
E il Logos si fece carne

In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di liti, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere, testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di liti. Egli non era la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di liti, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, mai suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volare di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venare ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli rende testimonianza e grida: «Ecco l’uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la ve­rità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.

* Il pensiero divino si fa carne: il divino connubio

Il ricercatore del bello sta in contemplazione, immobile e silen­zioso, davanti all’Ultima Cena di Leonardo, o sotto la volta della Cappella Sistina di Michelangelo. o a pochi passi dalla Tempesta del Giorgione. A Kyoto i rumorosi turisti ammutoliscono quando siedono sui gradini lignei del Ryoanji, il giardino-tempio di ghiaia bianca e rocce. Davanti al bello sostano in silenzio sia l’intellettuale. sia sia l’artista, sia l’operaio. La dignità dell’opera, per forza sua. crea il clima della contemplazione silenziosa e a essa risveglia l’animo dell’uomo. La ricerca della bellezza è l’aspirazione pro­fonda che giace, a volte vigile a volte assopita. nel fondo di quel sen­tire le cose che chiamiamo sensibilità umana. L’unica attenzione che spetta allo spettatore è quella di contemplare il capolavoro artistico nell’ambiente giusto e alla luce giusta.

Il prologo del Vangelo secondo Giovanni — questo è il nome tra­dizionale dato al brano davanti al quale sostiamo in contemplazione è un capolavoro anzitutto del Vangelo: ma non solo! Lo è dell’intera letteratura religiosa umana. Non c’è commento da piut­tosto c’è solo da disporre se stessi al clima dell’ascolto silenzioso e profondo. A questo, e solo a questo, mirano le considerazioni che seguono. Un Commento, quindi, che vuole funzionare da campanello che desti la giusta attenzione, affinché una pagina così preziosa sia letta con l’occhio profondo del cuore. L’abitudine potrebbe profa­nare! Tutte le considerazioni scritte in questo libro altro non sono che punti di vista da cui si può contemplare il capolavoro; sono tanti affinché ciascuno trovi il suo, quello che corrisponde al suo occhio.

Cominciamo con il riconoscere l’audacia di Giovanni a scrivere una pagina così: straordinaria, direi inaudita, in quei tempi e in quel­l’ambiente! Certamente fu lo stupore di una sintesi lungamente ri­cercata, e finalmente intravista, a suscitare nell’evangelista l’audacia di rompere certezze inveterate e ritenute intoccabili! Giovanni osò identificare il logos della filosofia greca, tradotto verbum in lingua latina. con la persona e la vicenda umana dell’ebreo Gesù di Naza­ret. In altre parole. da una parte riconobbe il valore autentico della ricerca del vero e del bello perseguito dal popolo greco: dall’altra tale apice lo identificò in un giovane uomo della Palestina, condan­nato alla morte di croce. Che cosa può esserci di più opposto al logos platonico che lo squallore di un corpo umano che si contorce su una croce? D’altra parte che cosa di più lontano per la mente del religioso ebreo che riconoscere la profonda comunicazione fra la giustizia promessa dal Dio di Abramo e di Mosè, e l’aspirazione dei po­poli pagani? Giovanni iniziò il Vangelo affermando: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… Tutto è stato fatto attraverso di lui. E’ il Verbo si fece carne».

Liberiamoci dall’abitudine e risvegliamo lo stupore. Rievochiamo i momenti della vita in cui abbiamo sofferto perché prigionieri dei nostri stessi schemi mentali, quale gabbia dorata in cui amavamo stare tranquilli. Finalmente accadde qualcosa che in modo sgarbato fece crollare quel castello e ruppe le sbarre. Sulle prime abbiamo maledetto la cattiva sorte; ma poi abbiamo capito e ringraziato. Ci siamo ritrovati liberi. senza corazze; e di nuovo abbiamo sentito la brezza rinfrescare la nostra pelle. Quale senso di libertà e quale fiducia! Soprattutto leggendo il Vangelo secondo Giovanni, liberiamoci dalle abitudini e risvegliamo lo stupore!

Gli scribi e i farisei erano professionisti delle Scritture e tale loro conoscenza si traduceva in violenza contro gli altri e contro se stessi. La vera conoscenza, per sua natura, è pudica: infatti, sa che ciò che può comprendere e dire è solo una goccia dell’immenso mare. Solo una goccia! Goccia però che, conoscendola fino in fondo, conduce a intuire la vastità dell’oceano. Gli esploratori del Cinquecento avevano ritenuto che le terre scoperte da Cristoforo Colombo fossero un lembo dell’Asia. Ciò concordava con quanto l’uomo eu­ropeo già conosceva e quindi confermava la tranquilla sicurezza di avere tutto sotto controllo. Ma un giorno qualcuno salì su un’alta montagne dell’istmo di Panama e scoprì che anche al di là si esten­deva un oceano sconfinato.

Giovanni, il redattore del quarto Vangelo, era salito molto in alto nella comprensione delle ultime prospettive dell’esistenza. Da quell’altezza potè osservare che la domanda di fondo della religio­sità biblica e quella della filosofia greca convergono. Il cammino di fede di Abramo o del popolo ebraico e la ricerca del vero e del bello dei pensatori della civile Grecia, ambedue affondano le radici nel terreno della vita e da quel terreno sono nutriti. E’ il terreno delle domande fondamentali che l’uomo di ogni epoca e di ogni dove si pone: Perché esisto’? Perché esistono le cose? Perché siamo così limitati e imperfetti, mentre dentro ci frulla continuamente l’idea del perfetto e dell’illimitato?». Ci dimeniamo dentro il limite di innume­revoli condizionamenti: ma la parte più profonda di noi comunica con l’idealità più assoluta! Perché questo indissolubile rapporto fra limite e non limite, dal quale proviene anche tanto lottare e tanto soffrire?

La battaglia fra reale e ideale è cosa seria e non dà pace al­l’uomo che affronta seriamente le domande serie dell’esistenza. Chi non regge alla tensione della battaglia fra l’ideale e il reale, si ar­rende e consegna se stesso all’indisturbata tranquillità di una scelta parziale. Se la natura lo inclina all’ideale, si adagia sulle nuvole do­rate dell’utopia e disdegna la bassezza della terra, della materia, della concretezza. Se invece ha l’indole di chi gusta rotolarsi nella pozzanghera del reale, si assopisce nell’accondiscendenza delle cose che capitano, disdegnando di portare qualsiasi croce che elevi i feno­meni a eventi significativi. Costa rimanere dignitosi ed equilibrati ri­siedendo fra le due forze, lo stimolo dell’ideale e il peso del reale, ambedue esigenti, che interagiscono dentro di noi. Due valenze op­poste, tenute assieme, formano la croce!

La lieta notizia che Giovanni registra all’inizio del suo Vangelo è appunto l’incarnazione del Logos. L’idea divina e perfetta in cui, di cui e per cui tutto esiste, da cui la nostra mente sempre attinge e a cui continuamente è attratta, quell’idea divina prende la carne della storia, dei fatti concreti. Prende la carne nell’uomo Gesù, che ha un nome, una madre, una dimora, una storia. Un uomo vero e reale in cui coabitano il limite dei condizionamenti del reale e l’illimitatezza dell’indole divina. Un uomo di cui tutti possono incontrare, toccare, verificare la vera umanità. «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toc­cato, ossia il Verbo della vita, […] quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi [ … ] Queste cose vi scriviamo, perché la vostra gioia sia perfetta» (Gv 1,1-4).

Molti cristiani, lasciandosi risucchiare nell’inveterata inimicizia fra ideale e reale, così cara all’uomo debole d’ogni tempo, quasi per rifarsi dall’umiliazione del Verbo che si è fatto carne, hanno idealiz­zato l’uomo Gesù purificandolo da ogni limite, facendone un uomo perfetto, un superuorno, quindi allontanandolo di nuovo dall’uma­nità e vanificando il Vangelo dell’incarnazione. Per noi, cristiani del Duemila, è difficile provare stupore ascoltando il prologo del Van­gelo secondo Giovanni, proprio perché abbiamo talmente idealiz­zato Gesù da sottrarlo dal rapporto con il limite umano. Finiamo per non sentirlo più uno di noi; e allora perché dovremmo stupirci? Gli evangelisti, liberi dagli schemi mentali che profanano, poterono co­noscere Gesù nella sua nuda umanità. Poterono stupirsi nel vedere risplendere nella carne umana la gloria dell’Unigenito, il pensiero perfetto e incontaminato di Dio.

Queste sono poche e scarne considerazioni sul prologo del Van­gelo secondo Giovanni. Poca cosa! Tuttavia possono concorrere nel creare attorno al Vangelo quella luce giusta, affinché lo si contempli con immediatezza e profondità. Siano, queste considerazioni, come un fraterno invito a guarire, ascoltando questo Vangelo, la nostra in­veterata ferita della dicotomia fra ideale e reale, che ci disaffeziona così tanto dalla vita. È il Vangelo dell’incarnazione di Dio nel­l’uomo, dell’eterno nel tempo, dello spirituale nel materiale, della santità nel peccato! Dio con noi! Quindi noi con Dio!

II prologo del Vangelo secondo Giovanni è letto nella messa del giorno di Natale. La festa del Natale tocca le fibre più profonde del dell’uomo, le guarisce, le consola, le profuma. Infatti nel Natale, come d’incanto, all’uomo viene annunciato che Dio è l’Emmanuele, il Dio con noi! Il non limite prende il corpo del limite! La perfezione abita nella tenda dell’imperfezione! La santità si fa peccato e redime il peccato!

Come sono feconde le nozze dell’ideale e del reale nella capanna dell’esistenza! Ne nasce la speranza e la pace. Il cuore perce­pisce l’ideale e lo detta; la mano lo delinea e gli dà forma concreta. L’ideale percepito dal cuore è illimitato: la forma concreta operata dalla mano è limitata. L’illimitato che prende corpo nel limite e il li­mite che si libra nell’illimitato!

Il cielo stellato avvolge la notte dell’esistenza. L’ideale brilla lontano nel cielo e le cose quaggiù giacciono nel buio. Ecco: nella povera capanna sotto il cielo vagisce un bambino. Le lucide stelle sorridono. con un pizzico d’invidia. Esse sono immense, tutte fatte di luce; ma ignorano il tepore della fragile carne umana. Non c’è la donna che partorisce, né la capanna, né la paglia, né il bue o l’asinello, né i pa­stori o i buoni re magi che accorrono in aiuto, né il perfido re Erode che si agita per uccidere. Vi manca la storia, il divenire, il ricercare e il trovare, il peccare e il pentirsi. «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità».

Non fu la gloria ferita di un principe spodestato, esiliato in un regno non suo, ma la «gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità». Come dimora glorioso nella casa del limite il Logos divino! E ciò ci liberi dai nostri devoti piagnistei come quando cantiamo: «Tu scendi dalle stelle Ah! quanto ti costo l’avermi amato!».

«Venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre. pieno di grazia e di verità».

p.Luciano

* In principio

Un filosofo contemporaneo ha sostenuto che il motivo vanifi­cante la comunicazione profonda fra occidente e oriente è che l’o­riente ignora il logos.

Ricordo con autentica pena i miei vani tentativi di spiegare a un confratello giapponese che mi interrogava in proposito perché mai il Vangelo di Giovanni sostenesse che in principio era la Parola (la Bibbia giapponese traduce il termine greco logos con parola, usando il sostantivo con cui si designano le parole parlate o scritte). Semmai, sosteneva il mio amico, in principio era il silenzio. Sembra proprio che ci troviamo in un vicolo cieco. Non che si voglia a tutti i costi trovare punti di contatto, convergenze, asso­nanze fra il messaggio religioso occidentale (cristianesimo) e quello orientale (buddismo), ma constatare la mancanza di un ponte pro­prio qui, in principio, alla base della concezione religiosa stessa, è opprimente per chi, come me, si sente figlio di un incontro che ap­pare impossibile. Risaliti al natale, al principio, dobbiamo ricono­scerci alieni l’un l’altro? Sembra proprio. Eppure…

Anche nel buddismo c’è una parola: in principio. Una parola che, in giapponese, si pronuncia do (con la o chiusa e lunga, come in domani). Questa parola ha tanti significati: solo nel piccolo vocabo­lario buddista che consulto ogni tanto ci sono 15 differenti significati, accompagnati da riferimenti e traduzioni sanscrite, pali, cinesi, tibe­tane. Non di meno ne ha la parola logos nel vocabolario greco, con tutti i suoi richiami etimologici. Questa parola do (in cinese tao) ha comunque tre significati che sono i principali.

II primo significato è coscienza, risveglio, illuminazione. In san­scrito si dice bodhi ed è veramente il fondamento ideale del buddi­smo e di tutta la religiosità orientale. Il risveglio non è solo il punto d’arrivo di un percorso individuale, è la realtà intrinseca e autentica di ogni cosa: è punto d’arrivo in quanto ritorno all’origine vera, al punto di partenza, al principio.

II secondo significato è via, cammino, percorso. In sanscrito si dice marga, e questo significato è inseparabile dal primo: è infatti l’e­strinsecazione concreta, la possibilità evidente del risveglio, come si manifesta nella realtà dei fatti e della mia vita. È la via universale che nulla esclude e che ogni cosa deve percorrere con il modo di es­sere suo proprio, per essere perfettamente se stessa.

C’è poi un terzo significato di do, del tutto diverso. Do (scritto con l’identico ideogramma dei due casi precedenti) significa parola. Meglio: significa dire, raccontare, racconto, discorso, espressione diretta che dice esaurientemente. Questo significato di do sembra meno significativo degli altri due, da un punto di vista religioso, e in­vece è senz’altro ricco di senso e di implicazioni; è, inoltre, l’identico significato che ha logos in una delle sue accezioni. È davvero il prin­cipio di ogni cosa: nel senso che ogni cosa ha intrinseca la necessità insopprimibile (che è la sua vita e morte) di dire se stessa, di espri­mere se stessa estrinsecandosi, come fenomeno unico e irripetibile che non può essere che se stesso. Questa spinta innata a raccontarsi, a dirsi, è lo spartito su cui è annunciato il Vangelo, è il dipanarsi della via dei risveglio, è Dio. È alternarsi di silenzio e parola, è il dramma della luce e delle tenebre, è il cantico delle creature: ogni cosa canta la verità, senza aggiungere nulla. I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Il racconto di Cristo, il racconto di Budda, il racconto di ognuno di noi e di ogni cosa è incarnazione dell’eterno: non ci sono né cieli né terra separati da quello. Il dialogo, che vuol dire penetrare nella parola, è entrare nel racconto, nell’espressione vitale l’uno dell’altro: è a sua volta insopprimibile necessità della vita, che genera vita, e non una possibilità che si può accettare o rifiutare, con alchimie e cautele. In principio era il Logos e il Logos era preso Dio e il Logos era Dio: in termini biblici la creazione, tutto ciò che è e che va verso il proprio compimento, è Dio che racconta se stesso. Davvero la parola è il principio, perché l’inespresso soltanto non ha principio e senza espressione di sé nulla sa­rebbe di ciò che è.

Jiso

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