Dom 12 Mag 2019 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

Love supreme
Amore supremo

Il maestro Saul Beretta, ideatore degli eventi “Monza visionaria”, mi ha chiesto un breve contributo al prossimo concerto “un percorso nella spiritualità della musica” di J. S. Bach e J. Coltrane, che si terrà mercoledì 22 maggio nel Duomo di Monza, ore 21,00. Il mio contributo sarà quello di guidare l’assemblea a gustare un intervallo di silenzio che sarà collocato tra le varie sezioni musicali. Questo inaspettato invito mi ha dato l’occasione di leggere quanto Wikipedia scrive sul musicista J. Coltrane. Ne riporto un brano:

“Amore Supremo, dicevamo: quello che in fondo è non solo il titolo, ma anche il tema cardine attorno al quale è imperniato il discorso di Coltrane.
L’amore come forma di celebrazione e di ringraziamento, l’amore come punto di approdo, come ancora di salvataggio. Il cui raggiungimento, tuttavia, esige uno sforzo enorme: Trane ci racconta che l’Amore Supremo è figlio della sofferenza più intima, che si nutre di molti ieri ma che guarda oltre, alle potenzialità infinite del futuro”.
“L’Amore supremo è figlio della sofferenza più intima”.

Voglio soffermarmi sull’aggettivo intima che qualifica la sofferenza che è madre dell’Amore supremo. Intimo/a dice qualcosa che penetra fino in fondo, qualcosa di cui non ci si libera con artifici superficiali ed esteriori, una situazione senza spiragli di fuga. Leggo che J. Coltrane attraversò questa esperienza della notte fonda, senza voltarsi indietro, e intravide l’albore della luce. La Chiesa Ortodossa americana lo considera santo.
L’Amore supremo comunica con l’esperienza della sofferenza più intima. E la sofferenza più intima comunica con l’Amore supremo.

Moise Kean, giovanissimo attaccante della Juventus, in una recente intervista ha confessato che nella grande gioia che prova ogni qualvolta fa goal in campionato, in quella stessa gioia istintivamente nel cuore gli sorge il ricordo degli anni della sua adolescenza, quando giocava all’oratorio Don Bosco di Asti con la pancia vuota perché in casa la mamma non aveva i soldi per comperare il cibo per i figli. A stomaco vuoto, giocava lo stesso, cadendo più volte sul campo da gioco. Questo non era un regolare campo da gioco con l’erbetta, ma uno spiazzo cementificato e a ogni caduta ci si feriva seriamente.

La gioia vera, quella più intima, è sempre legata alla sofferenza più intima. La vera gioia è pasquale, ossia è un passo lungo una via che si snoda tra ostacoli, e che di tanto in tanto sfocia in qualche belvedere, ampio e solatio. Il passeggero, stanco, si siede e gusta la policromia del paesaggio. La stanchezza si fa amica della gioia.

Molte proposte religiose, culturali oppure psicologiche, promettono la felicità attraverso l’azzeramento della sofferenza. Tuttavia, qualora la sofferenza ci rimanesse nemica nel pensiero come nelle scelte della vita, la gioia finalmente raggiunta – che presumiamo di aver raggiunto – rimarrebbe sempre tonificata da una tristezza celata: ossia dai momenti di tristezza non accettati. Se ntutto non è accettato, non c’è la pace con se stessi, non c’è la gioia incondizionata. Così come resterebbe qualcosa mancante nell’esperienza della maternità di una donna se la gravidanza e il parto non non le avessero richiesto una sofferenza a lei intima. Non è accolto intimamente ciò che non è riconosciuto proprio intimamente.

Gesù ci ha insegnato ad accogliere la grazia accogliendo il peccato. La via della santità è la conversione, non è l’innocenza. I novantanove giusti ci perdono e l’un solo peccatore che si pente ci guadagna (Vangelo secondo Luca, capitolo 15). Non solo lui; ma anche i cieli immensi.

Desio, 10 maggio 2019

L’Amore supremo è figlio della sofferenza più intima. Questa – la sofferenza più intima – è il proprio limite esistenziale: il proprio carattere, la malattia che fa visita, i rapporti famigliari o di vicinato o di lavoro: è tutto quanto ci imbriglia e non ci permette di scappare. E’ anche la propria appartenenza religiosa, che a volte si vorrebbe cambiare ma non si sa dove rifugiarsi perché, ovunque, tutto è dentro le contraddizioni della sua esistenzialità. E’ in un sepolcro roccioso dove ci conduce la ricerca della verità: la mente. Dalla mente la verità si lascia cogliere solo a frammenti, mentre questa bramerebbe possederla tutta, una volta per sempre. Ogni frammento che si lascia raggiungere, contemporaneamente svela il suo nudo limite. E il cammino continua, finché ci si accorge che quel continuo camminare è l’intimo della verità.
La mente pensante, stanca, tace. E nel cuore risorge, nuova e potente, la speranza.

 

per gentile cortesia di Giuseppe Siniscalchi

p. Luciano
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