Sab 7 Giu 2008 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

“Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori»”.

La religione che salva i giusti e la religione che salva i peccatori

E’ scontata la convinzione che Dio salvi i giusti e castighi i pecca­tori. Ne consegue che per noi il cammino religioso consiste nell’e­scogitare quegli accorgimenti che ci consentono di passare dalla ca­tegoria dei peccatori a quella dei giusti. La convinzione che Dio premi i buoni e castighi i cattivi ha avvallato il senso di superiorità dei primi e quindi il diritto a debellare gli altri nel nome di Dio. Più c’è questo tipo di religione, e più scorre sangue in nome di Dio!

Il Vangelo di questa domenica ha la forza di liberarci dalla terri­bile trappola in cui cade chi usa la religione per giustificare la sua violenza. Ci annuncia che Dio a un altro; anzi l’opposto del nostro Dio, così scontato, che premia i buoni e castiga i cattivi. «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e im­parate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio».

Parole di Cristo sconvolgenti! Ci presentano Dio come il medico che cura il malato. Il medico è impensabile senza il malato: c’è il medi­co, perché c’è il malato. Quindi c’è Dio, perché c’è il peccatore; c’è it peccatore, perché c’è Dio. E proprio it nostro stato di peccatori che ci rende meritevoli delle sue cure, stimolando Dio a mostrarsi come Dio; anzi, dando a Dio l’opportunità di agire da Dio.

Queste considerazioni sulla misericordia di Dio ci riempiono di riconoscenza e di stupore. Però di nuovo può mettersi in opera il no­stro paganesimo: possiamo approfittare della misericordia di Dio per giustificare il nostro lassismo. Pensiamo: tanto poi Dio chiude gli occhi! Sì, certamente Dio, anche se abusato da noi, non cessa di essere Dio. «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darà sfogo all’ardore della mia ira, perché sono Dio e non uomo» (Os 11,8-9). Il modo con cui Dio esercita la misericordia è assai rispettoso della persona. E un modo così silenzioso che la persona può non accorgersene affatto. Ciascuno di noi ogni giorno riceve la sua misericordia e la sera, prima di addormentarsi, dimentica forse di dire grazie. Ha ricevuto tanto; ma non se ne è accorto! Ciascuno di noi, se continua a esistere qui e ora, se può leggere il Vangelo e operare il bene, e grazie al fatto che è per­donato infinite volte. Perdonato dei peccati di cui a consapevole e ha memoria, ma soprattutto del peccato di omissione per il bene che poteva compiere, e che non ha compiuto.

Il bene non consiste soltanto in una serie di determinate azioni buone che possiamo contare e registrare, grazie alle quali catalogar­ci tra i giusti. Consiste prima di tutto negli atteggiamenti di fondo della vita da cui scaturiscono le nostre opere: quali la compostezza, la serenità, la fortezza d’animo, l’allegria, lo spirito di sacrificio, l’a­more. Quante azioni buone abbiamo compiuto forse senza vero amore, senza vera compostezza e fortezza d’animo: azioni buone senza l’anima, azioni morte! Più contempliamo il volto originario che Dio ha plasmato nel crearci, e più ci accorgiamo del grande di­vario dei nostri pensieri e dei nostri comportamenti. Siamo realmen­te peccatori! «Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa. Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo» (1Gv 1,8-10). Perché, se diciamo che non abbiamo peccato, faccia­mo di Dio un bugiardo?

Chi riconosce it suo peccato, riconosce la misericordia di Dio verso di sé e ne sente profonda riconoscenza. Peccato e misericordia sono le due sponde della via che introduce al retto rapporto dell’uo­mo con Dio: il rapporto di figliolanza. Dio da tutto perché è Padre; l’uomo riceve tutto e mette in opera quanto ha ricevuto perché e fi­glio! Senza condizionamento di interessi. Non c’è figliolanza se uno si presenta a Dio vantando meriti e virtù. «Non sono venuto a chia­mare i giusti, ma i peccatori». Il peccatore è il materiale umano adat­to a essere generato in figlio attraverso la misericordia.

Cristo non è venuto per i giusti, perché questi non aprono la por­ta. Meglio: perché questi non si sono ancora accorti di essere pecca­tori. La sua Chiesa a costituita di peccatori rigenerati continuamente dalla sua misericordia. Gli apostoli, il fondamento della Chiesa, fu­rono dei peccatori: Simon Pietro che Gesù chiamò satana perché cercò di distoglierlo dal portare la croce, Giacomo e Giovanni detti figli del tuono per la loro irruenza peccaminosa, Matteo detto il pub­blicano per il mestiere violento che svolgeva, Tommaso che restava nel peccato di credere solo vedendo miracoli. Che la Chiesa, sempre consapevole di essere composta di peccatori, sia riconosciuta dal mondo intero come il luogo dove si fa la religiosa esperienza del per­dono. Così tutti i peccatori del mondo verranno a banchettare.

p.Luciano

* Sani insani

Il monastero dove ho vissuto quando ero in Giappone è situato in una valle che si raggiunge seguendo una strada di montagna che si inerpica per quattro chilometri. Alla fine della strada c’è un’impo­nente scalinata, costruita dai monaci con grandi pietre: sono 108 enormi gradini, che conducono in cima, nell’ampio pianoro in cui sorgono gli edifici del monastero. Non sfugge a nessun buddista il si­gnificato metaforico di quella ciclopica scala. 108 e numero simboli­camente molto significativo, in oriente: enumera gli aspetti dell’illu­minazione così come le forme delle passioni, è il numero della perfe­zione tanto quanto quello che indica la quantità dei fenomeni. Riu­nisce in sé l’uno, lo zero e l’otto (che anche da noi e simbolo dell’in­finito): insomma, è il numero che dice l’incommensurabile. La me­tafora di quella scala, poi, è resa concreta dalla scala stessa: gradini alti e impervi, che spezzano il fiato e le gambe. Giunti in cima con lo sguardo annebbiato, ci si ritrova di fronte al monastero: il luogo del­la pratica e della vita severa, senza distrazioni e trastulli. In cima alla scala, insomma, inizia la via.

Racconto questo perché alla base di quella benedetta scala, ai lati di essa, ci sono due pilastri di legno, su cui è incisa una scritta. E una frase di Doghen che dice:

Solo chi e caduto a terra può risalire
da terra.

Quella frase starebbe a proposito fra le parole di Gesù nel Van­gelo. Perché, infatti, Gesù mangia spesso con i pubblici peccatori e di rado con i farisei? Perché quando mangia con i peccatori non fa mai loro delle prediche ma semplicemente mangia con loro, mentre quando mangia con i farisei non si astiene mai dal rimproverarli per la loro alterigia? In fondo i peccatori sono gentaglia che andrebbe rimproverata ed educata, gente impura, mentre i farisei sono quelli che cercano di fare tutto per benino, zelanti e ben intenzionati, sono i puri. Ma i pubblici peccatori, proprio perché peccatori, proprio perché pubblici, sono coloro che conoscono la loro condizione: san­no, quantomeno, di essere caduti a terra, e questo è il requisito pri­mo per potersi alzare. Sanno che la condizione di essere caduti a ter­ra è la condizione in cui si trovano, non ingannano né se stessi né gli altri. Inoltre, sedendosi a tavola con Gesù e con i discepoli, di loro spontanea iniziativa e da peccatori, mostrano il cuore della conversione: a da impuri che ci si converte, non da puri. Chi crede di essere, puro grazie ai propri comportamenti, chi pensa di non essere nella condizione di caduto, non può risalire da terra, non si può rialzare. La sua condizione di sano lo inchioda. Non c’è nessuno più insano di un «sano», perché la sua malattia è incurabile.

Per questo l’ipocrisia, questa maschera greve e artefatta, a cosa diffusa fra i religiosi, fra le anime belle, fra i «buoni»; per questo Gesù la addita come il più grave difetto. Perché di essa si ammanta chi vuole apparire diverso da come 6, chi fa il mestiere del puro, chi si sente non peccatore o, al massimo, considera la sua condizione di peccatore un fatto privato, non pubblico.

Siamo sempre ai piedi di quella scala che parte da terra, e sem­pre ne stiamo salendo i gradini. «Misericordia io voglio, non sacrifi­cio». Salire la scala non è un sacrificio, anche se a volte costa fatica. E una pubblica festa di misericordia. Alla mensa di Gesù a benvenu­to soltanto chi ha fame: chi si sente già sazio a meglio si fermi, in at­tesa di digerire. Svuotatosi, potrà poi ripartire, da terra.

Jiso

* Oltre i contrasti e le divisioni

Esiste un intimo rapporto fra libertà e necessità, sia nella vita del singolo che a livello di comunità. Per necessità si intende tutto ciò che ci vincola nelle nostre azioni: le leggi, le norme di comporta­mento, i cosiddetti doveri, ossia tutte quelle responsabilità, verso noi stessi e verso gli altri, cui non possiamo sottrarci. La libertà è la possibilità di muoversi, di scegliere, di decidere, nel rispetto o nel superamento di quelle regole, senza comunque mai procurare dan­no ad altri.

Questi due concetti si richiamano reciprocamente: se non ci fos­sero i limiti la libertà sarebbe un concetto privo di significato. Se non ci fosse la Libertà i limiti non avrebbero alcuna ragione di essere. rapporto fra libertà e necessità non è statico, ma dinamico. Pensia­mo alla condizione femminile: un tempo la possibilità per la donna di operare all’interno della società era molto limitata a causa di con­dizionamenti di vario genere, di preconcetti, se non addirittura di norme ben precise; attualmente non è più così: un cammino faticoso ha permesso il superamento di quelli che apparivano limiti invalica­bili e la conquista di una maggiore libertà.

Questo esempio ci aiuta a comprendere che a nel dialogo co­struttivo fra i poli opposti della necessità e della libertà che si realiz­za un processo di crescita. Ma questo a difficile da attuarsi poiché rischio sempre in agguato a che l’uno predomini sull’altro con esiti, sia nell’uno che nell’altro caso, negativi: il fiume straripa sia quando gli argini non sono adeguati, sia quando, nonostante argini robusti, un’eccessiva quantità di detriti ne impedisce il flusso.

Quando e come i limiti, le regole, i condizionamenti cui siamo sottoposti vanno superati? In generale si può rispondere molto sem­plicemente: quando questi favoriscono la disarmonia e il contrasto. Se per esempio in una comunità le regole sono eccessivamente rigi­de e le decisioni imposte dall’alto in modo autoritario questa diven­terà sempre più chiusa in se stessa creando inevitabilmente una frat­tura fra chi è dentro e chi è fuori; questo pericolo è scongiurato se c’è una vera apertura al dialogo e a mettersi in discussione essendo disposti a modificare, nei tempi e nei modi opportuni, le regole.

Gesù ha sempre lottato strenuamente contro le regole o le opi­nioni da tutti condivise quando queste creavano delle divisioni. Secondo l’opinione diffusa era disdicevole che un maestro con i suoi discepoli frequentasse i peccatori. Gesù non ha alcuna esitazione a infrangere questa regola superando la fittizia e fallace divisione degli uomini in buoni e cattivi.

Quanto è insidiosa, in chi segue il cammino spirituale, la tenta­zione di sentirsi parte di un ristretto gruppo di eletti! Gesù ci insegna che a nulla serve il medico senza il malato, ossia che chi veramente nella luce non desidera tenerla per sé, ma naturalmente e necessa­riamente la riversa laddove c’è l’oscurità.

Annamaria Tallarico

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