lettera
Vangelo e Zen
22 maggio 2011 – quinta domenica del tempo di Pasqua
Il Vangelo di domenica scorsa, sia nel rito romano come in quello ambrosiano, ci ha presentato la parabola di Gesù che noi da sempre e ovunque chiamiamo “del buon pastore”. Credo tutti rammentiamo quella parabola, in cui Gesù ci parla del suo rapporto con noi e del nostro con lui. In altre parole ci indica come deve essere il rapporto religioso. Stando alla nostra traduzione tradizionale, tale rapporto deve essere “buono”: buono il pastore, buone le pecore. Eppure, nel testo greco originale, Gesù non dice “buono”, ma “bello”. In greco “buono” è “agathos”, mentre “bello” è “kalos”. Ecco le parole di Gesù: “Ego (io) emi (sono) o (il) poimen (pastore) o (il – quello) kalos (bello)”.
“Io sono il pastore quello bello”: questa è la traduzione letterale delle parole di Gesù. Come mai da sempre la chiesa, forzando, traduce “buono”, anziché “bello”? Perché è più devota del “Buon pastore”, anziché di “Il pastore quello bello”?
In questi giorni, l’arresto di un sacerdote di Genova ha riportato alla ribalta l’abuso sessuale di sacerdoti su minori. I sospetti verso questo sacerdote, di cui i giornali ci hanno dato notizia, riempiono di una profondissima mestizia. E’ ben comprensibile che io, sacerdote, cerchi subito conforto ricordando per esempio don Puglisi, il sacerdote palermitano ucciso dalla mafia perché si dedicava anima e corpo alla redenzione di tanti adolescenti dalle maglie della mafia. E’ ovvio! Tuttavia rimane tutta la mestizia per quei ragazzi o giovani che nel sacerdote avevano atteso parole nobilitanti la loro persona, e invece hanno trovato l’abuso. A questa, come sacerdote, si aggiunge un’altra mestizia. Il vescovo di Genova, il cardinal Bagnasco, ha affermato che nulla gli aveva lasciato prevedere questa realtà. E ciò è cosa profondamente mesta. Com’è possibile che nessun altro sacerdote abbia mai notato il malessere che ristagnava in questo loro confratello, tra l’altro sieropositivo confesso? Come mai il suo vescovo non ha mai notato alcunché, mentre – così dice l’accusa – il sacerdote abusava proprio nella sagrestia? Qual’è il rapporto fra vescovo e sacerdoti, o fra sacerdoti, o fra fedeli e parroco e viceversa, nella chiesa? Come mai un vescovo non ha mai tempo per stare coi suoi sacerdoti, conoscerli, ascoltarli, e viceversa? Non ho dubbi che ora il cardinal Bagnasco domandi se doveva dare più tempo alla sua diocesi o alla presidenza della CEI. Che cosa viene prima nel Vangelo? Cos’è la chiesa: la struttura, oppure i rapporti umani e la vita di ogni giorno?
Delle volte la chiesa non è bella. Fa per il bene, quindi si sente buona, bonista; eppure non è bella. Nell’ultimo numero del settimanale cattolico giapponese ho letto un articolo che mi ha commosso. Il titolo è un’espressione del profeta Isaia, riportata da Paolo nella lettera ai Romani. Eccolo: “Quanto son belli i piedi di coloro che recano il lieto annunzio” (Rm 10,15). L’articolista parla del suo parroco giapponese, anziano, che si da da fare ad accogliere uno a uno alla messa domenicale e che durante la settimana ama visitare chiunque necessiti una parola e una preghiera. Quando celebra messa (in molte chiese giapponesi si entra scalzi e il sacerdote celebra scalzo), l’anziano sacerdote assorto nella preghiera liturgica non si preoccupava dei suoi piedi e i fedeli possono vedere i grossi buchi delle sue calze. L’articolista, un fedele, si rammentò dell’espressione biblica: “Quanto sono belli i piedi di …”. E compose l’articolo. Sì, sono belle le calze coi buchi! Molto più dei paramenti e dei vestiti principeschi di certuni nella chiesa! La chiesa delle prediche agli altri, dicendo cose buone, è buona; ma la chiesa della correzione fraterna è quella bella!
In giugno saranno riconosciuti “beati” tre milanesi: un sacerdote che ha fatto il parroco tutta la vita in un paesetto di montagna sopra Lecco (Alessandro Manzoni andava da lui per la confessione), una suora che ha passata la sua vita nel carcere di San Vittore, un missionario che ha passato tutta la sua vita nelle capanne della Birmania. In un raduno di sacerdoti ci hanno presentato i tre nuovi beati, con questa espressione: “In tutta la vita non hanno fatto niente di straordinario, ma l’hanno fatto col cuore, senza far rumore”.
E’ arrivato il tempo di tradurre letteralmente la parabola di Gesù. “Io sono il pastore quello bello”!
Scrivo queste riflessioni, perché le sento per me nella chiesa.
p. Luciano
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