(articolo pubblicato sulla rivista dei Servi di Maria “Monte Senario – quaderni di spiritualità n. 58, gennaio – aprile 2016)
Le genti ai piedi dell’Himalaya riconobbero nel principe degli Sakyâ il Risvegliato, il Buddha. Con il trascorrere del tempo, gli eredi del suo insegnamento rievocarono la figura del grande maestro, decorandola di una infinita serie di gesti di benevolenza. Non conosciamo la storicità di tali racconti; tuttavia è certo che le prime generazioni buddhiste interpretarono il risveglio come un sentiero cosparso di benevolenza e di mitezza. Buddha il misericordioso, titolo di queste povere considerazioni, non descrive tanto il personaggio storico di duemilacinquecento anni fa, di cui non abbiamo notizie vagliate dalla critica storica, ma piuttosto il Buddha generato nei secoli da chi ha percorso la via buddhista. Questo limite costituisce di fatto un grande pregio. Il Buddha non è principalmente una persona storica, ma è il cuore di generazioni e generazioni.
Una antica stele trovata a Govindnagar (Pakistan), risalente al secondo secolo a. c., raffigura il Buddha Amithaba. Si tramanda che un re potente lasciò tutto e si dedicò alla via insegnata dal Buddha, divenendo lui stesso Buddha. Quindi, si ritirò in una terra pura dove eternamente eleva il voto della salvezza universale. Grazie alla potenza di questa sua perfetta invocazione, chiunque sulla terra proferisce con fede il suo nome, è illuminato, è salvo. E’ questa la corrente buddhista tutt’oggi più amata e seguita in Giappone, sotto il nome di Jōdo, la terra pura. Amithaba fu tradotto in Amida, aggiungendovi l’appellativo Nyōrai, ossia colui che divenne così. Colui che divenne così conferma che il Buddha principalmente non è un personaggio storico, ma un cammino storico. Questa è l’essenza della misericordia del Buddha. Famosa rimase una affermazione del maestro Shinran (1173 – 1263), rinnovatore del Jōdo, che ridico con mie parole: Tutti dicono che se Amida salva i peccatori, tanto più salverà i giusti. Ma è vero il contrario: Se Amida salva i giusti, tanto più salverà i peccatori, perché Amida è misericordia. Così in Tannisho, opera di Shinran.
Tre secoli dopo l’erezione della stele di Govindnagar, nel Buddhismo maturò una profonda trasformazione: la primitiva forma monastica partorì una comprensione della via buddhista più comunitaria, detta Mahayana. In questa nuova comprensione, anche l’austera figura del Buddha delle origini subì rilevanti cambiamenti, assecondando le attese esistenziali dei fedeli. Il volto del Buddha assunse lineamenti femminili. Al Buddha dal volto femminile fu dato il nome di Kannon, ossia colei che vede e ascolta le voci della gente comune. Kannon è la personificazione della compassione e della bontà, madre e patrona del cammino universale, soprattutto della gente comune. “Se gli esseri viventi hanno bisogno di un monaco o di una monaca, di un credente laico o di una credente laica per essere salvati, Kannon diviene immediatamente un monaco o una monaca, un credente laico o una credente laica e predica la dottrina” (da Wikipedia: Guānshìyīn Púsà pǔmén pǐn).
Nei secoli della persecuzione (1600-1870) i cristiani nascosti per eludere il controllo del persecutore si forgiavano con la creta l’immagine di Maria a forma di Kannon, aggiungendovi una piccola croce sul retro. Queste statue, di cui ne restano molte, sono chiamate Maria Kannon. Hanno un volto madido di tenerezza e compassione.
Il Buddha, come pure il Cristo, non sono solamente due personaggi storici, il principe degli Sakyâ e il falegname di Nazareth, ma sono anche il cammino delle generazioni che ne hanno accolto e trasmesso l’eredità, arricchendola di nuovi approfondimenti. Quindi, “Buddha il misericordioso” non è soltanto un ruscello che scorre solitario, ma piuttosto è una grande corrente formata da tanti rivoli che in una certa epoca e in un certo territorio ha raggiunto la sua piena, inondando l’Oriente del richiamo alla benevolenza e alla mitezza. Un eremita e poeta, Ryōkan, ha cantato in pochi versi la benevolenza e la mitezza che fluirono nella sua anima, nel suo corpo, nel suo vestito.
“Se la mia veste
fosse tanto larga,
vorrei coprire
tutte le sofferenze
che sono nel mondo.”[1]
Mahakarunâ
Raimon Panikkar e la maggior parte degli studiosi della fenomenologia religiosa hanno riconosciuto l’essenza del Buddhismo nella disposizione di vita detta Mahakarunâ. Il sanscrito maha significa grande. E’ da notare la somiglianza con il corrispondente termine latino magnus: infatti maha e magnus derivano da una radice comune alle lingue indoeuropee. Karunâ significa patire con, portare con. Anche qui, per lo stesso legame indoeuropeo, una somiglianza con il latino volgare caricare, caricum. Mahakarunâ è, quindi, la grande compassione. Questo termine fu trascritto in cinese, quindi anche in giapponese, con tre ideogrammi: 大慈悲. Il loro significato per ordine è: grandezza – benevolenza – mestizia (compassione). Mahakarunâ è la confluenza di queste tre qualità nell’esperienza umana.
Per cogliere l’aspetto caratteristico della misericordia come sperimentata nell’Oriente e nel Buddhismo, mi soffermo sul senso dell’ultimo dei tre ideogrammi, mestizia. Come è noto, l’esperienza originante il Buddhismo è quella dell’impermanenza di tutte le cose. Impermanenza dice che tutto quanto ha l’esistenza non risiede nella sua esistenza, ma esiste senza avere una residenza in cui sostare. Il sutra della saggezza del cuore, fondamentale nel buddhismo Zen[2], recita: “proprio tutte le forme esistenti sono il vuoto; proprio il vuoto è tutte le forme esistenti”. Una espressione di Virgilio ci aiuta a comunicare con la percezione dell’impermanenza buddhista: sunt lacrimae rerum[3]. C’è una innata mestizia in tutte le cose che esistono. E’ la mestizia dello stesso esistere come enti che non hanno alcuna residenza ove poter riposare. Sono contenuti dentro un proprio limite che non possono travalicare, eppure nemmeno quel limite è la loro dimora. Le cose esistenti grondano le meste lacrime della loro impermanenza.
Il Buddhismo è la religiosità del vivere composti e dignitosi senza allontanarsi dalla condizione originaria che è esistere senza avere alcuna residenza per il proprio esistere. Da questa religiosità fluisce il senso del bello che in giapponese è detto wabi. Wabi è appunto la patina dell’impermanenza che si forma naturalmente sulle cose con il trascorrere del tempo. Nel mesto conflitto tra il tempo che porta alle cose la loro forma e contemporaneamente la sottrae, e lo sforzo delle cose di stare composte nella forma che il tempo loro dà e subito sottrae, in tale conflitto si origina il wabi. Ho detto conflitto, perché così appare; ma di fatto questo è l’autentico modo di esistere di tutte le cose. In questo essere così, è come se il tempo sperimentasse una fine mestizia nel suo destino di apportare e subito sottrarre, e le cose ugualmente provassero la stessa fine mestizia nel destino di doversi difendere dal tempo che da una parte le fa esistere e subito dall’altra sottrae l’esistenza data. Questa mestizia condivisa tra il tempo e le cose nella sensibilità buddhista è la madre della grande benevolenza. Nel destino di essere così, il tempo e le cose si abbracciano. L’abbraccio concepisce la bellezza.
Dicendo quindi “Buddha il misericordioso” non si dice tanto la misericordia di un soggetto dal nome Buddha, ma la misericordia innata nella realtà che nell’uomo riconosciuto come Buddha si è manifestata con pienezza. La misericordia non ha un soggetto che la possiede e la distribuisce, ma anima il farsi e il disfarsi delle esistenze. La misericordia non è una virtù, ma è la calda qualità delle cose. Con espressione più occidentale che orientale, si direbbe è l’anima delle cose.
La Natura, il corpo del Buddha il misericordioso
La natura è la scuola dove l’uomo viene introdotto e guidato alla grande – benevola – mesta esperienza di mahakarunâ. L’interdipendenza dei fenomeni naturali, oggi riscoperta e reclamata ovunque, insegna all’uomo di non separare una cosa dal corpo dell’universo, per poi così ghermirla con le sue mani e ridurla a suo possesso personale. Le cose separate dal flusso dell’anima universale di plotiniana memoria, perdono il calore originario e con il loro corpo lacerato a loro volta lacerano le altre cose. Diventano violente.
Il buddhismo insegna a trattare la natura con venerazione e pudore. Rispetta anche la vita della zanzara che punge. Ryōkan, monaco dello Zen e poeta, soleva dormire un giorno con la gamba destra e l’altro con quella sinistra esposta fuori dalla zanzariera, a beneficio degli insetti. Non era un atto virtuoso, ma semplicemente autentico, poiché percepiva se stesso dentro lo stesso flusso vitale con tutti gli altri viventi.
La natura è il corpo del Buddha il misericordioso. E’ la buddhità incarnata. Eihei Dōgen scrive: “Ogni cosa che è, è verbo di Buddha, è lingua di Buddha. E’ la pupilla dei buddha e patriarchi, è la narice dei monaci”[4]. Ryōkan, Saigyō, Issa, Bashō e tanti altri monaci e poeti hanno cantato i fenomeni naturali, compartecipando della loro grandezza, benevolenza e mestizia. A chi ricercava la buddhità nei riti e teorie religiose, nel testo appena citato Dōgen afferma: “La natura autentica che devi sempre testimoniare è invece la siepe, è il muro, è la tegola, è il ciottolo”[5]. La natura, il corpo di Buddha, diviene le cose ordinarie della vita quotidiana. Ogni strumento al servizio della vita è la mano di Buddha. Insieme, natura e uomo sono Buddha il misericordioso. Il senso religioso percepito nelle cose ha dettato poesie e haiku di delicata e pura bellezza. Ecco una poesia di Ryōkan e uno haiku di Issa.
“Il vento è cessato, ma i fiori cadono ancora;
gli uccelli cantano, i monti sono in silenzio.
Segno della forza misteriosa
del Buddha misericordioso.
Mistero incomprensibile!”.[6]
“Le foglie cadute:
la predica
del Buddha”.[7]
La natura con pudore e nel silenzio provvede affinché i vari esseri che giacciono nel suo seno si rapportino fra loro in modo vitale e armonioso.
Il fiore chiama la farfalla spontaneamente,
la farfalla si posa sul fiore spontaneamente.
Quando il fiore si apre, viene la farfalla;
quando viene la farfalla, il fiore si apre.[8]
Il bodhisattva
“… Sono diventato la barca, la strada e il ponte di coloro che desiderano raggiungere l’altra riva. Possa io essere una luce per coloro che hanno bisogno di luce. … Così possa io essere di sostentamento in molti modi per il regno degli esseri innumerevoli che dimorano in ogni parte dello spazio, finché tutti non abbiano ottenuto la liberazione”. [9]
Il bodhisattva eleva il voto di non entrare nel nirvana di cui ha già raggiunto la soglia, finché anche un solo vivente giace ancora prigioniero della passioni e delle illusioni. E’ l’uomo della via che lascia il caldo rifugio già raggiunto nel Buddha, e fa ritorno nel mondo per dare una mano a chi ancora giace nel pantano. Sono molti i sentieri attraverso cui il bodhisattva mette in atto il suo voto. Elenco alcuni di questi sentieri, con il loro nome nella lingua giapponese.
“Zaise : l’elemosina del vestito, del cibo, della casa, dei campi delle perle, ecc… Hōse: condivisione dei beni spirituali, insegnare agli altri la via all’illuminazione, pregare per gli altri, ecc. Muise: in cui è il Buddha stesso che compie la carità che è impossibile all’uomo … il perdonare, l’amare i nemici… Questa carità viene operata direttamente da Buddha attraverso la cooperazione strumentale dell’uomo”[10]. Ecco lo spelling di Muise. MU è il negativo e significa non, nulla. I significa intenzione. Se significa opera di carità. Quindi indica la carità gratuita, soprannaturale, opera direttamente compiuta dal Buddha.
L’elenco che ho riportato è tratto da uno scritto di Koin Takada, abate del tempio Yakushiji – Il Buddha che guarisce – di Nara, dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità.
Dialogo Vangelo e Zen
E’ opportuno concludere con una breve riflessione di spiritualità del dialogo, che traggo dalla mia esperienza.
Riconosco che nella via buddhista, in particolare in quella Jōdo ma anche Zen, la misericordia del Buddha è sperimentata e messa in atto in un clima molto umano e spontaneo. Ciò è grazie alla importanza che ha la natura nella vita dei buddisti orientali. La natura – vedendo con i nostri occhi – diremmo che per i buddhisti sostituisce Dio. Il rimanere nella dimensione umana, senza dover ascendere a un ente superiore e quindi ridiscendere, custodisce meglio il calore e trattiene l’opera della misericordia più calda. Questo è un insegnamento per la nostra tendenza di teologizzare anche l’opera della carità, come sarebbe motivare la visita a un malato per il fatto che Gesù ha promesso il paradiso a chi fa tale opera. La comprensione più pura del Buddhismo ci insegna il Muise, ossia a non aggiungere nulla alla carità. Il Cristo è reso perfetto non dalla sua natura divina, ma dalla spoglia esperienza umana, senza aggiunte. “Pur essendo figlio (di Dio), imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5, 8-9).
Contemporaneamente nel Buddhismo rimane un’ombra senza luce. Per il fatto che nella via buddhista non si riconoscere la posizione di Dio che trascende tutte le nostre possibilità, la misericordia rimane sempre nel limite della realtà umana. Così per tutte le vittime che l’uomo non ha potuto soccorrere con la sua opera di misericordia non c’è salvezza.
Lungo il sentiero del dialogo l’umanità possa convertirsi a una dimensione più autentica della misericordia.
p. Luciano Mazzocchi sx
[1] Daigū Ryōkan, Poesie di Ryōkan monaco dello Zen, La vita felice, Milano, 2008, pag.98
[2] In giapponese Hannya Shingyō
[3] Eneide, capitolo 1, versetto 462
[4] E. Dōgen, Busshō – La natura autentica, pag. 31, EDB, Bologna
[5] Ibidem pag. 76
[6] Daigū Ryōkan, Poesie di Ryōkan monaco dello Zen, La vita felice, Milano, 2008, pag.127,
[7] Issa, Haiku scelti, La vita felice, 2008, Milano, pag. 81,
[8] Ibidem n. 3, pag. 128-129
[9] Santideva, Bodhicaryāvatāra, cap. II “Adozione della mente del risveglio”. Roma, Ubaldini, 1998 pag.59
[10] Koin Takada, Kokoro – lo sguardo del cuore, pag. 88, Mondadori, Segrate MI, 1991 pag. 88