Dom 16 Gen 2022 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

la testimonianza di Claire Ly

Dove porta il sentiero Vangelo e Zen? Il cosiddetto dialogo interreligioso rende più profonda la ricerca umana, oppure ne fa una miscela insapore, un vino innaffiato?
Quante volte queste domande si sono affacciate e continuano ad affacciarsi alla mia coscienza. Sarebbe vacuo cucire brandelli delle varie tradizioni e ritualità religiose e farne una esibizione da carnevale. Ugualmente sarebbe vacuo rattoppare le forme cosiddette buddhiste con pezze cosiddette cristiane e viceversa. La testimonianza di Claire Ly, scrittrice cambogiana, quindi viandante della stessa via ma proveniente dall’altra sponda, mi dà conforto e coraggio.

La prima occasione per conoscere Claire Ly mi fu data dal libro “Il buddhismo Mahāyāna attraverso i luoghi, i tempi e le culture – La Cina” (Marietti) di Mauricio Y. Marassi, monaco dello Zen e compagno di cammino. A pag. 68 Marassi cita una testimonianza di Claire Ly, che presenta come: “autrice cambogiana… nata buddhista e poi diventata cristiana”, motivando la citazione a sostegno di un incontro profondo tra religione buddhista e cristiana “a partire da un sentimento religioso che le precede e le omologa”.
Ecco la citazione:

“Gli occhi umidi della madre brillano di una luce indefinita: gioia?, tristezza?. O le due assieme? E’ difficile a dirsi. Mi sono improvvisamente chiesta se non fossero semplicemente le primizie della resurrezione. Mi è stato molto parlato della resurrezione, il centro della fede cristiana, ma con concetti a volte difficili che facevo fatica a seguire. Le mie origini buddhiste mi spingono spesso a cercare le “verità” della fede in Gesù Cristo nelle piccole cose della vita… I nostri occhi brillano di quella ferita che ci ha segnato per sempre. Ma brillano anche della vita che scorre e che ci procura la forza necessaria a intraprendere il viaggio di
ritorno”.

Claire Ly scrive questo rievocando gli anni durissimi in cui fu prigioniera nei campi di concentramento dei Khmer rossi, e Marassi sottolinea che è la sua origine buddhista a farle cercare le verità di fede nella quotidianità, nelle piccole cose della vita che scorre, perfino nell’inferno del campo di concentramento.

In questi giorni ho trovato in libreria un libro di Claire Ly dal titolo: “Tornata dall’inferno” (Paoline editore), la cui lettura mi ha fatto compagnia in questi ultimi giorni. Mi ha dato il conforto e il coraggio di cui necessito giorno dopo giorno per andare avanti libero dal condizionamento di risultati appariscenti. A chi ha a cuore il dialogo Vangelo e Zen, e in generale della spiritualità maturata nei popoli dell’oriente e di quella nei popoli dell’occidente, rivolgo con convinzione l’invito a leggere questo libro. Libera dalla stanca intellettuale e spirituale in cui possiamo ristagnare.
Cambogia, anni 1975-79. Claire Ly, professoressa di Diritto e Filosofia, è deportata nel campo di concentramento per essere purificata dal borghesismo occidentale e riportata alla originaria vitalità rurale del popolo Khmer che nel passato ha costruito il grandioso tempio Angkor Wat, patrimoniodell’umanità e una delle sette meraviglie del mondo.

Due fratelli, il padre e il marito, riconosciuti non più purificabili, furono uccisi. Come loro, altri due milioni di incorreggibili, un quarto di tutto il popolo cambogiano. Giustificazione declamata dai patrocinatori della rivoluzione: la legge del karma per cui uno ha ciò che s’è meritato, e quella della transitorietà universale per cui non vale la pena attaccarsi alla vita. Claire si ribella a questa convinzione radicata nel buddhismo cambogiano, convinzione sfruttata dalle squadre della rivoluzione per eliminare chiunque avesse opposto resistenza. “Continuare ad accettare la legge del karma quando l’ingiustizia è lampante, quando la violenza è onnipresente, quando ho la responsabilità della vita dei miei figli, mi risulta impossibile. Accettare la legge del karma mi porterebbe semplicemente a spegnere in me il desiderio di vivere. Ora, in questa situazione di non vita, posso resistere soltanto se continuo a desiderare di vivere con tutte le forze. Sono come un naufrago in alto mare: se smette di nuotare, è la fine, a meno che non trovi un pezzo di legno a cui aggrapparsi. Il pezzo di legno in questo mare in tempesta è l’odio, la rabbia, la ribellione”. Claire allude al pezzo di legno a cui per disperazione alcuni si aggrappavano: denunciare alla polizia rivoluzionaria il nascondiglio di qualche antirivoluzionario. Mors tua, vita mea!

Alcuni decenni prima, nei campi di concentramento delle terre occidentali, ha imperversato la stessa legge dell’odio. Nella lotta con il destino della sofferenza procurata dalla violenza umana, Claire Ly non cede mai alla rassegnazione passiva esentandosi dal formulare il proprio giudizio e dal dovere di mettere in atto la sua reazione. Sentiva la necessità di sfogare il suo odio verso la forza del male e allo scopo ricorse allo stratagemma di crearsi un capro espiatorio su cui riversare le sue imprecazioni. Niente di meglio per lei, laureata in filosofia, che il Dio onnipotente, onnisciente e misericordioso di Cartesio e degli occidentali. Lo chiama Il mio Dio Testimone. Scrive: “Quello che conta adesso è la vita di oggi, quella dei miei figli. Che futuro possono avere nelle condizioni in cui viviamo al campo? La sola frase che rivolgo spesso al mio Dio Testimone è: <Tu non mi avrai. Ti dimostrerò che sono più forte di te>” (pag. 73).

Anno 1979. L’esercito vietnamita invase la Cambogia e rovesciò la dittatura di Pol Pot. Claire Ly con i tre figli rifugiò in Thailandia; quindi, grazie alla fama di scrittrice, fu scelta fra i cento profughi ospitati dalla Francia. Furono anni di profonda ricerca e riflessione in cui dentro di sé processava i suoi ricordi buddhisti e il proselitismo cristiano di cui era fatta oggetto nella nuova terra. Pochi giorni dopo l’arrivo, un pastore protestante le aveva offerto una Bibbia in cambogiano. Mise a processo il contenuto della Bibbia: “Se Gesù sapeva già che Dio, suo padre, lo avrebbe risuscitato, allora la sua vita perde interesse ai miei occhi: diventa quella di un avatar, di una divinità più o meno capricciosa che bisogna pregare in ginocchio. Questo tipo di vita non ha più nessuna influenza nella mia esistenza di donna. In effetti in questo momento mi trovo incapace di districarmi tra l’onnipotenza di Dio e la grandezza dell’uomo… Nella tradizione buddhista delle mie origini, l’uomo è superiore a qualsiasi divinità” (pag. 149-150).
Il suo abbraccio col Cristo accadde all’improvviso, il giorno in cui, accompagnando i figli a una gita-pellegrinaggio organizzata dalla parrocchia locale, assistette alla celebrazione eucaristica. Tutti a mangiare un frammento di pane spezzato, dicendo: “Amen, così è! La carne di Dio”. Due anni dopo Claire Ly fu battezzata. “Ma è così che vedo la risurrezione: è un’armonia di vita anche nei momenti di frattura, una pienezza anche nella mancanza, una serenità anche nei momenti di rivolta… Nel mio rapporto con il Dio Gesù Cisto, provo un bisogno di silenzio quasi fisico…” (pag. 160).

“Gli scogli che ho incontrato muovendo i miei primi passi da neofita, conducono la mia barca al naufragio. Ho vissuto un anno di dubbi e di tristezza. Mi dico che è stato un errore di essere stata battezzata; non imparerò a conoscere Gesù Cristo entrando a far parte della Chiesa cattolica: c’è troppo fatalismo, troppo moralismo, troppo attivismo. Tutti questi <ismi> mi tappano le ali… Ho vissuto così un anno intero, ferita da innumerevoli delusioni, prima di riuscire a riprendere il cammino. Sono riuscita a tornare sulla strada giusta grazie ad alcuni cristiani delusi come me. Laici e preti abbastanza semplici da osare condividere con me la loro <fede ferita>… Questi cristiani hanno vissuto la loro fede come qualcosa di più che una religione. Con loro riscopro la gioia di essere libera, libera di essere mediocre… senza altro piacere di ritrovarmi e di ritrovare le tracce di Colui che fu folle da lasciarsi inchiodare in croce…” (pag. 158).
La testimonianza di Claire Ly mi chiarisce quanto è vacuo il dialogo interreligioso come concorso di perfezionismo di forme. Questo, altro non è che un’occasione offertaci in questo nostro tempo per dialogare con l’abisso dell’essere umano. Al punto da vedere Dio nella carne. E, con le mani e i piedi feriti, risorgere a vita nuova.

La continuazione nella prossima lettera. Grazie per aver letto questo letterone.

p. Luciano

Nessun tag per questo post.
categorie: In evidenza, lettere

Lascia una risposta